• L’inno delle Origini e la fine dei tempi – Prima parte

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    Jean Bouchart d’ Orval
    L’inno delle Origini  e la fine dei tempi – Prima parte
    3ème Millénarie n. 43 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini

    lingam

     

    L’Inno delle Origini (Nasadiya Sukta)
    -         Non c’era allora né il non-essere né l’essere. Non c’era né spazio fisico né spazio sottile. Chi velava Quello, chi lo proteggeva? Cos’era l’Acqua senza fondo e l’impenetrabile?
    -
             Non c’era né morte e nemmeno  immortalità. Non c’era allora alcuna manifestazione della notte e del giorno. Questo Uno respirava senza respiro, maturo in sé. Cosa c’era d’altro che Quello? Quale altra delizia poteva esserci?
    -
             Al primo inizio, tenebre ricoprivano tenebre. Questa Distesa indistinta era tutto. In quel tempo, questo Non-nato vuoto, questo Uno onnipotente, emergendo apparve per il potere dell’Ardore.
    -
             All’inizio, si sviluppò una sorta di Desiderio, che fu il primo germe del pensiero. Cercando con saggezza nel più profondo di se stessi i visionari scoprirono il legame tra il manifesto e il non manifesto.
    -
             La loro corda era tesa in orizzontale. Qual era il sotto, qual era il sopra? Ci furono portatori di semenza e di potenti forze; in basso c’era l’Istinto, in alto la Grazia.
    -
             Chi sa in verità? Chi saprebbe dire qui da dove è apparsa questa creazione, da dove è stata lanciata? Anche gli dei sono al di qua di questo emergere. Chi può dire da dove emana?
    -
             Questa creazione, da dove emana. Se è tenuta, o se non lo è, Colui che l’impregna nello spazio più sottile lo sa senza dubbio, o forse non lo sa…

    (Rig Veda X, 129)

     
    Le storie di fine dei tempi tornano periodicamente a eccitare l’immaginazione degli umani che vivono nel tempo. Cosa c’è di più normale? Ma, più che le profezie e tutto ciò che è anedottico, ci attira a volte l’intuizione della “atemporalità”. Anche se non appare che per un breve istante, lascia tuttavia un’impressione sconvolgente. E’ da questa intuizione e da questa conseguente impressione che in noi inizia la ricerca d’Assoluto. Questa ricerca d’assoluto in ogni essere umano, che lo sappia o no, è quello che ha di più profondo. L’entusiasmo per “la fine dei tempi” non è che un sintomo della ricerca d’assoluto.
    Cercare la soluzione dell’enigma dell’universo in una fine dei tempi legata agli avvenimenti o in un’origine storica, denota la nostra solita difficoltà, aggrapparci al mondo di causa ed effetto e non uscire dalla spiegazione orizzontale di ciò che a noi sembra “accadere”. Ma i visionari che hanno incarnato la Tradizione (1) in ogni epoca e in ogni luogo, quelli che hanno riconosciuto questa inadeguatezza e si sono sentiti abitati dalla verticalità, hanno visto chiaro e qualcuno l’ha espresso. Il
    Rig-Veda, senza dubbio la più antica raccolta di testi spirituali che ci sia pervenuto, canta le origini in un Inno chiamato giustamente Inno delle Origini.
    Questo Inno del visionario vedico proietta una luce così penetrante sull’”origine” che può servire da fondamento alla nostra vita intera. Non si dà nessuna informazione, non si fa nessun annuncio altisonante da prima pagina. Il tono è sobrio. E’ piuttosto interrogativo che affermativo. Non che il visionario sia ignorante; al contrario, è perché sa tutto ciò che deve sapere che si mantiene aperto, in una attenzione sospesa che non osa offuscare con dogmi vociferanti. Non ci abbozza il quadro con un qualsiasi personaggio epico da dare in pasto al pensiero. Non c’era né il non essere né l’essere: niente a cui si possa “pensare”. Non c’è nessuna immagine. L’Inno sembra parlare all’imperfetto, ma in realtà non c’è tempo per ciò che c’è all’origine.Che tempo potrebbe coniugare chi racchiude il tempo in sé? Si potrebbe anche leggere l’Inno al presente, perché l’origine non è un evento spazio-tempo: è l’unica realtà qui-ora. Forse l’infinito sarebbe più appropriato…
    Ciò che il visionario mette in rilievo è la inadeguatezza di ogni concetto a cogliere la realtà dell’Origine. Per poter comunicare, lo nomina “questo Uno”. Ma cos’è questo Uno se non c’era “né il non –essere né l’essere”?  La scena non potrebbe essere più vuota; niente creatore, niente spazio, niente tempo, niente essere né non-essere! Il manifesto non proviene da un qualunque non-manifesto, come se i due fossero prima separati, come se l’Uno non fosse l’altro. Non concetto d’essere o di non-essere, così come quelli di morte e d’immortalità si riferiscono alle cose, sottili e grossolane, a tutto ciò che può esistere o non esistere. I nostri concetti di esistenza e non-esistenza sono inapplicabili all’Assoluto. Esistenza, non esistenza, immortalità, tutto ciò non è che immagine, anche se talvolta l’immagine è utile. Perché Quello dovrebbe essere immortale se non c’è che Quello? L’intelletto, che non funziona che per le “cose” e afferra un osservatore in uno spazio e tempo dato, può cogliere Quello, quell’Uno, “questa distesa indistinta”? Le facili speculazioni lineari dei filosofi occidentali del dopoguerra sull’esistenza e l’essenza o quella sull’essere e il nulla appaiono ridicolmente inadeguate di fronte ad una Realtà, di cui né una affermazione né una negazione possono scalfirne la superficie. L’universo non viene né da qualcuno né da qualche luogo né da qualche parte, non viene nemmeno dal nulla, che è un concetto intellettuale. La non esistenza è data con l’esistenza e nessuna delle due deriva dall’altra. E’ suggerita l’immagine dell’acqua. Essa non è da nessuna parte e dappertutto, visibile e invisibile, con e senza forma, secondo le volte. Suggerisce qualcosa che non ha opposti e perciò tende ad avvicinarsi all’Uno. E’ il pensiero frammentato che si arrampica a cercare “altra cosa”, a voler spiegare. Per spiegare, bisognerebbe poter condurre ad un “altra” realtà. Ora, come canta l’Inno “Cosa c’era d’altro che Quello? Che altra delizia poteva esserci?”
    Eppure c’è l’Universo manifesto… Cos’è perciò questo stupore? E’ l’emergere di questo “non-nato vuoto”. Come emerge? Per il potere dell’Ardore (
    tapas). La manifestazione della Vita è l’espressione di questa “densità” o “fervore” dell’Uno. Bisogna lasciarsi toccare da ciò che questa parola evoca, perché nessun’altra spiegazione è possibile. Lì non c’è solo un processo compiuto una volta per tutte all’”inizio dei tempi”, ma soprattutto un dato essenziale, indelebile e attuale della Realtà unica. Il visionario precisa subito dopo che si profila una sorta di desiderio (kama) dietro la manifestazione e che quello è il luogo tra manifesto e non- manifesto. La parola kama significa desiderio e amore. Il desiderio qui non concerne una persona o una cosa; è piuttosto l’apertura essenziale dell’Uno, apertura che sola permette l’esistenza di tutto ciò che esiste. Un’altra parola per apertura sarebbe libertà. Ma questa parla nel nostro linguaggio corrente, si riferisce  a una persona e non è adatta pienamente in questo contesto. “E’ perché è possibile e questo Uno è assolutamente senza limite che gli esseri esistono. Ed è per la stessa evidenza che non esistono”.
    L’ Inno conclude con una serie d’interrogazioni o piuttosto di porte aperte, che sono la stessa immagine di questo Uno. L’universo come si manifesta diventa possibile attraverso la domanda aperta. L’Inno termina con l’apertura suprema, perché colui che sa non sa “qualche cosa”. La conclusione non è la rinuncia alla conoscenza, è la realizzazione che l’ “Origine” non può essere come si conosce qualcosa; è Quello che è quando tutto ciò che può essere percepito e nominato come altro da sé si è cancellato e riassorbito in Quello.
    Per la necessità della comunicazione, il testo sembra parlarci di un avvenimento passato, ma quello di cui parla è atemporale. C’è Quello. Non ci si può evidentemente riferire a un inizio prima del tempo. Tutto Quello, quell’Uno, compresa la sua manifestazione, che chiamiamo universo o mondo, tutto quello è dato in blocco, in un momento unico e senza secondo. E’ perché Quello che è all’origine dell’universo è anche Quello che lo sostiene e quello che lo distrugge e lo trasforma. L’offerta creatrice non è separata dal supporto della creazione; è la stessa Realtà, in uno stesso momento.
    L’inno del “Supporto cosmico” (
    skambha) particolarmente le tre strofe seguenti, fanno eco all’Inno delle Origini:
    “Com’è che il vento non cessa di soffiare? Che il pensiero non riposa? Perché le acque, che cercano di raggiungere la verità, non cessano mai di scorrere?
    -         Il grande prodigio nel cuore dell’universo l’attiva alla superficie della distesa, grazie all’Ardore. Gli Dei, qualsiasi essi siano, si appoggiano come i rami d’un albero sul tronco.
    -
             Lui, a cui gli dei portano senza posa un tributo incommensurabile nello spazio finito con le mani e i piedi, con la parola, con l’udito e lo sguardo. Parlami di questo supporto: qual è?

    (Atharva Veda X, 7 37-39)

    (continua…)

  • L’inno delle Origini e la fine dei tempi – Seconda parte

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    Jean Bouchart d’Orval
    L’Inno delle Origini – seconda parte 
    3ème Millénarie n. 43 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini
     

    L’Inno delle Origini e dunque anche l’Inno della Realtà, vogliono riferirsi a quello che è ora. Trovano la
    porta del legame tra il non essere e l’Essere, tra l’Uno e tutto ciò che evolve nel divenire. Ci si dice che i
    visionari hanno scoperto questo legame e che la loro corda si stende in orizzontale,e ciò  significa, tra il non-
    ssere e essere: “In basso era l’istinto, in alto la Grazia”; questa frase corta ma potente rivela l’intuizione
    profonda del visionario sul meccanismo della creazione dell’universo, ma anche su quello della liberazione
    dell’uomo.
    L’universo è Pura Coscienza, e attraverso i meccanismi di percezione di questo universo, in particolare il sistema nervoso di un essere umano, la sua vera natura brilla, essendo ricoperta dall’impressione illusoria di esistere in quanto persona, come un’entità separata dal Tutto. Non possiamo far sparire questo strato di ignoranza se tendiamo a uno scopo, perché tutto ciò a cui possiamo tendere è ancora “qualche cosa” e non può essere l’Uno. Il solo modo consiste nell’osservare che noi siamo già questo Uno, cioè metterci ad agire come l’Uno. Non ci sono cammini verso ciò che già siamo! Non c’è che vedere e vivere di conseguenza. Agire senza intenzione personale, essere staccato dai frutti dell’azione, meditare sulla nostra vera natura, tutto questo fa riferimento all’essenza di una entità personale; lì è non solo il cuore, ma la totalità della spiritualità. E’ il messaggio fondamentale delle Upanisad, della Bhagavad Gita, degli Yoga Sutra di Patanjali, dell’Advaita Vedanta, dell’insegnamento di Budda e di tutti i grandi testi spirituali autentici, non solo dell’India, ma della terra intera.
    Questa è la stessa essenza dell’Inno delle Origini: il dono, il sacrificio, la grazia. Il
    Veda dà un’importanza straordinaria al sacrificio, all’offerta (Yagya). La nostra tradizione giudaico-cristiana anche vi si riferisce abbondantemente: la nozione di offerta ritorna spesso presso i Patriarchi e nella vita del Cristo. Nella formulazione vedica è spesso espressa con rito sacrificale, oblazioni, formule, incantesimi ecc., come in tutte le religioni, ma tutto questo ha la sua origine nell’essenza dell’offerta. E’ così che il rito di celebrazione eucaristica della chiesa cattolica romana è ancora oggi fondato sulla realtà dell’offerta.
    Il
    Veda ci mostra qualcosa di più profondo di quello che hanno potuto vedere gli eruditi che l’hanno prima presentato, tradotto e commentato. Gli “esperti” universitari vi hanno visto soprattutto dei riti a divinità diverse, che rappresentano per la maggior parte forze della natura. Si è presto concluso riferendosi ad una sorta di religione primitiva e “politeista”. Fino a che non si accede all’esperienza diretta di “questo Uno”, il Veda non rivela il suo segreto. Quando si conosce la natura umana non è difficile credere che ciò che doveva essere all’origine dei riti di celebrazione di “questo Uno” è effettivamente diventato, generazione dopo generazione, un insieme di riti piuttosto vuoti e un mezzo di dominio per la casta dei preti, i bramini. E’ ciò che ha portato al ritorno ad un’autentica spiritualità dal Budda e da numerosi altri riformatori all’origine del Vedanta. Budda è venuto a ristabilire la verità originale del Veda, quella stessa che i preti arroganti pretendevano di celebrare con una spiritualità degenerata. Gesù è venuto a ristabilire la stessa verità dell’originale insegnamento dei patriarchi e di Mosè. La degenerazione delle civilizzazioni tradizionali comincia sempre con la reificazione del sacrificio, con la cristallizzazione e la banalizzazione dei riti e dei concetti. Molto spesso questo ha coinciso con il passaggio da una tradizione orale ad una tradizione scritta, cioè quando l’accento è messo pesantemente sulle formule e le rappresentazioni particolari, diventate degli assoluti. Ogni volta che la spiritualità autentica cade nella dimenticanza, uno o più maestri tornano a far brillare la luce sulla terra.
    L’ offerta è un tema centrale della Tradizione (1) ed è dominante nei
    Veda. E’ con l’offerta che  l’universo è creato e mantenuto. Niente del mondo può nascere senza offerta, senza sacrificio. L’essere umano è concepito con il dono (il padre), nasce con un sacrificio (la madre) e può crescere e prosperare con numerosi altri sacrifici (i due genitori). Un’opera d’arte o di scienza viene alla luce con un sacrificio di tempo e di energia. Un prodotto di consumo è fabbricato con il sacrificio di una certa materia prima e con una quantità d’energia. In guerra la vittoria è sempre ottenuta a prezzo di grandi sacrifici. Nel gioco degli scacchi, questo specchio di vita, le vittorie più brillanti sono generalmente il frutto di una combinazione che comporta all’origine un sacrificio. Dappertutto nell’universo la vita si manifesta grazie all’offerta, come il fiore che deve anche lui sparire perché nasca un nuovo albero.

    La creazione è l’offerta stessa. Il mondo manifesto è il dono di questo Uno in conoscibile come Uno, ma
    conoscibile come “mondo”. Non si può dire che questo Uno è. In quanto Se-stesso non può  essere né non-
    essere: è l’Unica Realtà e i verbi “essere” e “non essere” sono fuori gioco, inapplicabili a quello che non è
    né qualche cosa né niente. E’ solo quando questa cosa è. Il sorgere della forma è la manifestazione di questo
    Uno, ma porta anche alla sua scomparsa come Uno. Una cosa è sempre percepita in quanto cosa, se no non
    può essere percepita! Quell’Uno si manifesta ritirandosi, viene ad essere scomparendo nell’oblio, un oblio
    creatore, in un sacrificio di Se stesso come Se stesso. Si cancella come Se stesso nella comparsa di qualcosa
    di percettibile, per essere questa evidenza percepibile.

    Paradossalmente, attraverso questa scomparsa, si manifesta come Io stesso.
    Ecco ciò che sarà sempre incomprensibile per l’intelletto. L’essere umano non arriverà mai a conoscersi e a superare la sua ignoranza finché non diverrà completamente Quello nello specchio nel suo sistema nervoso. Ed è col sacrificio, con l’offerta che questo Uno nasce una seconda volta nell’uomo e questa seconda nascita è quella che si chiama liberazione o realizzazione. Gesù non diceva giustamente a Nicodemo: “In verità, in verità ti dico che, a meno di non nascere di nuovo, nessuno può vedere il Regno di Dio”?
    L’uomo si libera per “imitazione” di ciò che è già e che è all’origine della sua persona, con la quale tende a identificarsi. Egli riproduce il processo di creazione dell’universo nel suo sistema nervoso. E’ l’universo stesso. Finché lo ignora e si crede qualcuno, è vittima dei suoi condizionamenti e spande il caos  attorno a lui. Il sacrificio creatore dell’Uno include anche il “cattivo uso” che ne fa l’uomo. Ma quando questo prende coscienza della sua vera natura, non pensa più e non agisce in funzione di uno scopo particolare: diventa il dono, l’offerta, il sacrificio, il “
    yagya” del Veda. Non si può avere realizzazione spirituale senza questo “yagya”, perché è la definizione stessa del risveglio, che fa sì che sempre l’Uno si manifesti in tutti gli esseri, ossia essendo tutti gli esseri. L’offerta, il dono, è quella che chiamiamo meditazione. E’ riconoscere l’assenza del meditante come entità separata dall’Uno. E’ veramente sacrificare l’illusoria realtà personale del soggetto che percepisce e anche dell’oggetto percepito, perché viva completamente l’Uno nello specchio del sistema nervoso. E’ identificarsi con Lui, pensare come Lui, agire come Lui. Comprendere questo Uno è essere coscientemente l’Uno. La visione radicale da cui è sorto l’Inno delle Origini propone di tagliare netto con l’abitudine usuale e malata di voler trovare una spiegazione orizzontale a tutto ciò che ci capita. La psicologia, finché tenta di addormentarci nel mondo della causa storica di ciò che è, perpetua una frode colossale. Il cambiamento di comportamento dell’essere umano avviene sempre dall’evidenza della verticalità, diventata possibile con l’abbandono della piatta e buia orizzontalità del pensiero abituale. Ciò che funziona, fuori e dentro ogni terapia, è inesplicabile fondamentalmente. E’ una apertura al transpersonale e questo è sentito nel cuore. Ogni guarigione è miracolosa. Miracolo della Vita.
    “All’inizio, sorse una sort di Desiderio…” Il Desiderio (
    kama) dell’Inno non è qualcosa di personale, non c’è alcuno scopo, alcuna strategia da attuare. E’ Puro Amore. E’ per l’ignoranza della sua vera natura che la creatura trasforma il Desiderio cosmico in desiderio personale, in avidità, in commercio. E’ l’istinto: “in basso c’era l’Istinto”. L’istinto qui è la legge della natura, l’orizzontalità della causa e dell’effetto, la forza viva dell’universo com’è espressa nello spazio-tempo, senza che ci sia coscienza della vera natura di questa forza viva nel sistema nervoso di ogni “creatura”. L’offerta meditativa è il processo per il quale la natura di Puro Desiderio, o Puro Amore del meditante è riconosciuta. Non può provenire da uno sforzo della persona. Viene sempre dall’alto perché è sempre in alto: “in alto la Grazia”.
    La questione del Desiderio è capitale. Ciò che in generale chiamiamo desiderio è l’appropriarsi di un’entità fattuale, la persona, del movimento naturale della Vita, che è pura Coscienza e pura gioia. Il compimento del desiderio porta per forza a una gioia incompiuta e provvisoria. La repressione del desiderio proviene da un altro desiderio e non porta mai lontano. Tutto ciò che è fondato sull’idea di persona  viene da una cattiva lettura di Quello che è. Questa mancanza d’abilità nasconde la natura vera dell’Uno: come meravigliarsi se la pace incommensurabile dell’Uno sembra non esserci? Il Desiderio dell’Inno non ha nessuno scopo. Il desiderio di un essere umano è puro calcolo e vuole sempre un compenso  al suo  investimento.
    La parola sanscrita
    Kama significa Puro Amore. L’essenza di ogni cammino spirituale è la cessazione dell’idea di persona. I desideri cessano automaticamente, non c’è più un soggetto. Nella Bhagavad Gita, Krishna insiste sulla rinuncia ai frutti dell’azione.
    Il Cristo vive la rinuncia ad ogni forma di volontà personale e non compie che la volontà del Padre. Tutte le grandi tradizioni hanno annunciato la grandezza della rinuncia e l’onnipotenza dell’accontentarsi. Perché così  pochi esseri umani ci sono arrivati? Molto semplicemente perché la maggior parte sono rimasti
    qualcunoche vuol rinunciare. Qualcuno non può mai davvero rinunciare, perché qualcuno non può che volere qualcosa per se stesso. Quando la rinuncia sembra essere un affare conveniente, allora qualcuno fa una vita da santo. Ma quando sopravviene una certa trascuratezza o un certo assopimento, quando altri desideri promettono un rendimento migliore a breve termine, allora c’è il ritorno ai comportamenti di prima. Straordinaria meditazione: quando non c’è più nessuno ad appropriarsi del desiderio, è la vera rinuncia. Il sacrificio autentico non consiste nel privarsi di qualcosa per piacere a una divinità per ottenere un favore (neanche il paradiso) come in tutte le religioni. E’ l’Atto, la Vita stessa, nella pienezza del Dono, nell’Offerta aperta. L’Atto non è un fenomeno dello Spazio-Tempo, non si localizza. Quando la vera natura dell’Uno risplende attraverso il sistema nervoso dell’essere umano, allora tutto ciò che questo essere pensa, dice e compie è un riflesso diretto dell’Atto. E’ l’azione giusta. Non è morale; ma nemmeno immorale! Moralità e immoralità si riferiscono sempre all’idea di persona e non hanno niente a che vedere con la visione profonda della Tradizione. Il cambiamento di comportamento è un effetto, mai una causa. Voler cambiare comportamento, è sempre alla superficie e non va molto lontano.
    “Quanto ai sacrifici, ne identifico due specie: da una parte quelli degli esseri umani interamente purificati, che è raro ed è di un solo individuo o di molto pochi- come dice Eraclito-, facili da enumerare, d’altra parte, i sacrifici materiali, corporali, compiuti nel divenire e che sono quelli di chi è ancora legato al corpo” (Jamblique, I misteri d’Egitto V,15).
    Profondamente, il sacrificio all’origine della creazione non è un atto particolare dello spazio-tempo, non un sacrificio liberatorio, l’atteggiamento meditativo, che consiste in un’attività locale nello spazio-tempo. I due sono qui-ora, attuali, atemporali. Noi non esistiamo nel tempo! Non è grazie ad un sacrificio del tempo che possiamo liberarci dal concetto di essere delle entità che evolvono nel tempo.
    Non è che non ci sia niente da compiere come esseri umani ancora identificati con il corpo  o al fatto di essere qualcuno. Al contrario, una dieta sana e pulita, un minimo d’esercizio, l’equilibrio intelligente tra attività e riposo, tutto ciò favorisce il funzionamento armonioso del corpo e della mente, che non è senza rapporto con la pulizia necessaria al risveglio della nostra vera natura. Un corpo in disordine perde tempo ed energia; al contrario un corpo pulito ed energico permette di dedicare la sua energia e la sua attenzione all’investigazione profonda, che è la grande opera dell’incarnazione umana; la frequentazione di persone e testi ispirati imprime un movimento verso la chiarezza, senza la quale la liberazione non è possibile. Infine , la limitazione dalle limitazioni radicate nel corpo e la pratica del
    pranayama, come è insegnato da millenni, favoriscono il risveglio e il salire di un’energia senza la quale l’essere umano non può assolutamente sfondare il muro della comprensione strettamente intellettuale.
    E’ la riproduzione nel sistema nervoso dell’Ardore cosmico (
    tapas). E’ chiaro che se non si fa niente, l’essere umano continua a seguire la china della cristallizzazione della sua energia e della sua visione. Non è mai questione, in un approccio non-duale che alla fine tutti gli sforzi, tutti gli scopi ed i programmi siano basati sulla dualità ed è questa che deve cedere. La “pratica spirituale” è tutto ciò che un essere umano compie coscientemente riferendosi al silenzio profondo della sua vera natura, sapendo che ciò non può permetterne l’espansione totale nella sua vita. E’ un atto compiuto nel distacco, cioè senza sete di guadagno, se no non ha alcun senso.
    E’ l’essenza stessa del “
    yagya” vedico. Il sacrificio è l’Atto, che è espressione della Pura Apertura che noi siamo, fin dall’inizio. Agire con uno scopo appesantisce l’azione e la chiude sullo scopo e il suo autore, entità separata dal tutto, particolare. Ogni cammino che afferma con veemenza allontana la conoscenza dell’Uno, che è l’Apertura.
    Riproducendo in sé il “
    yagya” dell’Origine, il meditante è l’Origine. E’ questa la vera conoscenza (2). Il sacrificio è anche venerazione (puja).
    Venerare è proprio dell’esistenza ed è quello che ritrova l’aspirante. Tutto ciò che compie diventa venerazione. La sua condotta è venerazione della Vita, dell’Uno. Così l’espressione “
    brahmacarya” designa il celibato osservato dall’aspirante Ma questa parola significa che prima di tutto si segue l’esempio di Brahma, dell’Uno, che si agisce come Lui, che si è Lui. L’espressione “brahmacarya” significa dunque l’atteggiamento aperto sulla stessa Vita piuttosto che su una forma particolare, e caratterizza il suo atteggiamento in tutto. L’apertura, o sacrificio non è la soppressione della gioia, è il regalo della vera via. E così per il respiro. Il veropranayama non è un particolare esercizio di respirazione, è il sacrificio del respiro della vita, l’assenza di ogni traccia di desiderio del respiro.
    “In basso era l’Istinto, in alto la Grazia” L’inspirazione è la Grazia che crea l’individuo retto dall’Istinto, cioè dalle leggi della natura. L’espirazione è l’offerta di ogni forma dello spazio-tempo. Nel riposo che segue l’aspirante è nel senza-forma originale dell’Uno, di cui l’Inno dice che “respirava senza respiro”.
    Così, lo sguardo meditativo splende nel cessare di ogni scopo, di ogni desiderio, di ogni intenzione e pretesa. Tutto si dissolve nell’attenzione, nel Puro Sguardo. E’ la trasformazione del desiderio in offerta, il ritorno al senso originale di
    Kama, l’abolizione del centro di percezione particolare chiamato “io” per la Pura Percezione che è l’Origine.
    Note:
    1)      Si può chiamare Tradizione il filo conduttore invisibile che presiede l’espressione chiara e diretta dell’Assoluto. Mette l’accento su ciò che in noi non cambia. E’ universale e trova belle formulazioni in tutte le tradizioni spirituali dell’umanità.
    2)
          Che si tratti o no dell’etimologia della parola, Yagya fa pensare a  ya-gya: colui che sa.

  • La Luce dell'Oscuro

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    Jean Bouchart d’Orval
    La luce dell’Oscuro
    3ème Millénaire n. 45 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini

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    La filosofia occidentale si basa, per le domande essenziali, sulla sorgente misconosciuta del pensiero greco. Jean Bouchart d’Orval evoca la luce dell’Oscuro, del famoso Eraclito d’Efeso. Affrontare il pensiero d’Eraclito con la metodologia proposta dall’autore, è scoprire l’origine del pensiero filosofico occidentale.
    “L’Oscuro, Quello che è senza segno distintivo, che non è oggetto che sia colto da un soggetto; Quello che è il cogliere stesso; che è Puro sguardo, Pura Coscienza”
     
    D: Jean Boughart d’Orval, ci sono già molte traduzioni e commenti dei frammenti d’Eraclito; perché vi siete dedicato a tradurre e commentare questo pensiero dell’antichità?
    R: Eraclito ha formulato qualcosa di davvero inaudito, ma i suoi contemporanei avevano del cemento nelle orecchie e i commentatori antichi e moderni che si sono susseguiti non sono riusciti che a banalizzare e offuscare lo splendore della sua luce. In generale, le traduzioni e i commenti che esistono non sono soddisfacenti, nel senso che trascurano l’essenziale di Eraclito.
    L’uomo della fine del XX secolo ha bisogno di capire il discorso-vortice di Eraclito (come lo chiama il prof. Constantin Fobuias nella sua magnifica prefazione) in tutta la sua radicalità e, per questo, è meglio posto nei Greci della fine del VI secolo avanti Cristo. Molti sono quelli che, nelle società industriali, hanno esplorato il mondo dell’apparire, quello della forma, per realizzare che quello che cercano è al di là di ogni “cosa”. L’uomo che si trova davanti la rivista 3^ Millenarie ha la capacità e l’opportunità di sentire Eraclito dire: “Di tutti quelli di cui ho sentito i discorsi, nessuno è arrivato a riconoscere che chi è saggio trascende ogni cosa”.
    Il mondo antico, ha dapprima sentito parlare d’Eraclito da Platone e Aristotele. Sono questi due, soprattutto Aristotele, che hanno dato il tono all’Occidente, mettendo avanti un percorso coltivato da allora con le caratteristiche della “filosofia”. Ma Eraclito non è un filosofo come s’intende in occidente; ciò che ha formulato non è fondato sull’opinione, sul punto di vista personale, né sul ragionamento o la credenza. E’ un autentico saggio, cioè un essere umano, che ha smesso di credersi un essere umano o  qualsiasi cosa, compreso un saggio. Ciò che distingue un vero saggio dagli altri uomini è che ha smesso di vivere come uno che dorme.
    Nell’India tradizionale, con il termine
    rishi si designa colui di cui l’ignoranza è finita. Bisogna spesso ricorrere a questi termini esotici perché in questo contesto le nostre parole europee non vogliono più dire granché. Si chiama “saggio” presso a poco non importa chi pretende d’ esserlo o se ne dà l’aria. D’altronde la parola “filosofo” indica qualcuno che si è formato un sistema di pensiero con le sue letture e le sue riflessioni. Ora, le idee che ha espresso Eraclito non vengono a fondare un sistema filosofico; Eraclito non ha niente da dire. Uno dei frammenti dice:” L’Onnipotente di cui l’oracolo è quello di Delfi non dice né nasconde, ma fa segno” Ecco, Eraclito anche lui “fa segno” e rinvia l’uomo alla sua propria luce, piuttosto che infliggergli un sistema di pensiero o un ideale e costringerlo all’indigenza spirituale per il resto dei suoi giorni. Si è subito e prima di tutto dato all’ascolto, piuttosto che provare a costruirsi una opinione.
    La maggior parte delle traduzioni e dei commenti di Eraclito danno per scontato che aveva un messaggio da far passare, una teoria da dire al mondo. Certo, il testo può a volte dare questa impressione; ma contrariamente a ciò che è successo dopo in occidente, è prima di tutto il frutto del reale ascolto. E’ importante ristabilire questo, se no si fanno dire a Eraclito delle banalità. Così uno dei frammenti importanti dice:” L’Unico è Quello che è saggio: sapere che quello che conosce, governa tutte le cose attraverso tutte le cose”. La traduzione solita dice qualcosa del genere. “La saggezza consiste in una sola cosa: sapere che una saggia ragione governa tutto attraverso tutto”. Questo è accettabile sul piano grammaticale, ma lo splendore di Eraclito si trova allora ricoperto da uno strato buio che banalizza la luce dell’Oscuro. Tradurre “
    gnoum” con “una saggia ragione” riempie temporaneamente la nostra insicurezza e siamo molto tentati di accettarlo e di passare oltre. E’ sempre questa insicurezza che ci spinge a stare alla superficie dell’esistenza e ad attaccarci a tutti i concetti che rassicurano e rafforzano l’idea dell’ “io” oggettivando tutto.
    Ciò che le opere accademiche definiscono “una saggia ragione” e che i religiosi chiamano Dio può rassicurarci sulla piatta orizzontalità del nostro mondo immaginario, dove l’idea del soggetto e dell’ oggetto si profila dietro ogni percezione, ma prima o poi ciò che non è reale crolla.
    Per la maggioranza degli esseri umani, questo succede con la morte del corpo e della struttura egoica. Ma bisogna arrivare alla morte per realizzare la nostra ignoranza colossale? Eraclito propone la cessazione di questa ignoranza ora, coscientemente, lucidamente, in modo che i suoi residui nella memoria di cui fa parte, possano essere sciolti e la libertà illuminarsi in tutto il suo splendore. Non è che Eraclito neghi l’esistenza di una specie di saggia ragione, ma suggerisce di andare a vedere la vera natura di questa saggia ragione. Dopo aver sentito “una saggia ragione” l’attenzione si assopisce, la ricerca ristagna. Quando ci si accontenta della parola stessa, si assume il concetto di un’entità separata da sé che governa tutto come un governo fatto con i propri cittadini, con degli scopi, dei mezzi e dei risultati. La “saggezza” allora diventa qualche cosa, ciò che Eraclito giustamente dice che non è. Ciò che Eraclito ha realizzato nella sua meditazione è radicale; è perché ha vissuto in modo audace e ciò che propone non è banale. E’ la realtà che è audace. Se si osa abbandonare, anche per un momento, le rappresentazioni tradizionali rassicuranti, vive la meraviglia. La verità mostra di essere tanto più semplice e più elegante di tutti i modelli con i quali l’uomo si è torturato il cervello da millenni!
    Il senso primario di “
    gnomè” è “la facoltà d conoscere”; è “quello che conosce”.
     Che è tutto. Ma il pensiero, nella sua paura di uscire dal conosciuto, si è affrettato a farne “una saggia ragione” che controlla tutto in modo volontario. Eraclito ci invita, in questo frammento e in molti altri, a uscire dall’immagine infantilizzante di un Dio con delle mire per le sue creature, dei piani, delle strategie, un Dio che negozia con i suoi “soggetti”, un Dio nel divenire, sorpreso dal tempo.
     
    D: Parlate di un ascolto reale. Cosa intendete con questo?
    R: L’ascolto è fondamentale per Eraclito. “Non essendo portati per l’ascolto, non sanno nemmeno parlare” dice uno dei frammenti. Potremmo dire che non sanno pensare, parlare, né agire. Essi sono i dormienti, come li chiama Eraclito, che vivono in modo automatico e incosciente, giorno dopo giorno, anno dopo anno, che continuano a credere, malgrado le smentite quotidiane che porta loro la vita, che sono gli autori dei loro pensieri, delle loro parole e dei loro atti, come delle entità individuali.
    L’ascolto di cui parla Eraclito non diventa possibile che quando l’essere umano realizza profondamente la futilità di tutte le sue pretese e le sue strategie. Succede allora qualcosa di fresco: l’ascolto è senza scopo, senza attesa, senza soggetto e senza oggetto. Nessuno ascolta e niente è ascoltato, ma c’è ascolto. Se si vuole, si può chiamare questo meditazione, ma l’importante è la realtà stessa e non il concetto o la parola. Finora l’ascolto dell’uomo, a parte qualche eccezione, è sempre stato l’ascolto di qualcosa, di qualcuno. C’è sempre “qualche cosa” che si aspetta, qualcosa al quale si potrebbe arrivare per una strada, forse facendo yoga, praticando la meditazione, pregando, diventando buddista, o cristiano, o ancora frequentando un
    ashram in India per anni. Non è che queste strade siano cattive, no; è la nostra “attitudine” che è maldestra, è il nostro impulso al profitto che ci allontana da ciò che cerchiamo. Eraclito dice: “Se non si aspetta l’inatteso, non lo si scoprirà, lui che è inesplorabile e senza accesso”. Propone un ascolto sciolto dal contenuto della memoria, un ascolto veramente silenzioso, purgato di tutte le velleità di cambiare qualsiasi cosa a ciò che è. Non che i cambiamenti cessino, al contrario. Eraclito sottolinea il carattere dinamico della manifestazione dell’Unico: “tutto scorre” dice “tutto cede e niente tiene” o ancora “ il sole è nuovo ogni giorno” o ancora “non si può entrare due volte nello stesso fiume”. D’altronde, il solo vero cambiamento dell’uomo accade nel momento in cui si lascia prendere dall’Inatteso. Eraclito chiama anche questo ascolto quello del logos: “la saggezza vuole che quelli che sono all’ascolto, non di me ma del logos, vedano che ogni cosa è l’Unico”. Non è un uomo che è ascoltato, non è un concetto né un ideale, no; è il Logos, che è una parola utilizzata per nominare quello che è “inesplorabile e senza accesso” ma che è la nostra natura profonda. La parola logos è felice perché se non si conosce il greco non vuol dire niente e tanto meglio. Quando si può mettere un senso alla parola logos, ci vuole tempo per disfarsi delle rappresentazioni. Certo, per chi come me ha l’handicap d’aver studiato un po’ il greco antico, si può divertire a penetrare in un senso profondo e perduto la parola logos (io l’ho fatto) ma più profondamente la parola non vuol dire niente! Nessuna parola vuol dire qualcosa di reale se si insiste perché dica qualcosa… Liberarsi dal senso permette di essere con una mente chiara. Eraclito dice: “Avere la mente chiara è la più alta virtù; la saggezza consiste nel parlare della realtà così com’è e agire secondo la propria vera natura, stando al suo ascolto”. Nella chiarezza delle mente tutto diventa luminoso.
     
    D: Eraclito insiste sull’impermanenza di ogni cosa. Non assomiglia a
    Buddha in questo?
    R: Eraclito è vissuto esattamente alla stessa epoca di
    Buddha in India e di Lao-Tseu in Cina, ma nessuno dei tre ha  mai sentito parlare degli altri. E’ in ogni caso una mancanza di visione tentare di paragonare gli insegnamenti dei saggi autentici, di provare a vedere l’influenza dell’uno sull’altro. I tre hanno formulato la Tradizione, cioè ciò che non si riferisce al tempo e alla persona. Nei tre casi è la stessa Sorgente che opera: non bisogna stupirsi di trovare un’identità di fondo. Ma non è essenziale fare lunghi studi comparativi; è meglio stabilirci noi stessi in questa Sorgente!
    Perché Eraclito insiste, in molti frammenti, sull’impermanenza di tutte le cose? E’ che l’uomo, nella sua vita di tutti i giorni, insiste egli stesso pesantemente sulla permanenza di queste cose! Certo, intellettualmente sappiamo che “tutto cede, niente tiene” come dice Eraclito, ma sul piano emotivo, lì dove tutto si gioca nella nostra vita, agiamo come se tutto fosse permanente... Perché stupirsi d’incontrare la sofferenza?
    La sofferenza è sempre il risultato di una lettura distratta della realtà. Le nostre azioni, le nostre parole e i nostri pensieri sono tutte interrogazioni per sapere che cosa è reale. Sentire un desiderio in effetti è fare la domanda: “questo è reale?”. La risposta non è sempre la stessa? Perché continuiamo ad agire, parlare e pensare come se tutto dovesse durare a livello di forma e fenomeno? Semplicemente non spingiamo la nostra inchiesta così lontano per sradicare finalmente la tenace illusione che esistano cose individuali, che ci sono molte entità. Quando ci si dà veramente all’ascolto, prende piede una nuova comprensione,il sapere che “tutte le cose è l’Unico”. A quel punto si smette di credere a una pluralità d’esistenze. Se il chiacchiericcio mentale si calma davvero, se pure per un momento, la realtà della Pura Coscienza si rivela. Come parlare di un Dio separato dalle sue creature, come lo propongono diverse religioni? Come accontentarsi di caldeggiare una “teoria” sulla realtà, come lo scienziato che non spinge più lontano la sua ricerca?
     
    D: Un ultima parola?
    R: Possiamo lasciarla allo stesso Eraclito: “E’ l’eredita legata a tutti gli uomini: conoscere se stessi e vivere nella chiarezza” Abbiamo tutti la capacità di riconoscere il vero, perché noi siamo la verità stessa. E’ questa verità che si cerca in quella che chiamiamo la nostra vita, i nostri pensieri, le nostre parole, i nostri atti. L’ombra è presente in noi per comprendere questo riflesso che noi prendiamo per la luce e far uscire la vera luce, la luce dell’Oscuro.
    Ecco perché il saggio d’Efeso dice: “E’ proprio della nostra vera natura manifestarsi mentre si nasconde”

  • Meditare è guardare per la prima volta

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    D: Avete già insegnato la meditazione, ma sembra che da qualche anno ne parliate in modo diverso. Cos’è meditare per voi? Che genere di meditazione raccomandate?

    R: Se praticate la meditazione per arrivare da qualche parte, per ottenere dei profitti, per diventare qualcosa, per liberarvi o per diventare un essere realizzato, allora cosa fate di davvero diverso dalla maggioranza degli esseri umani che calcolano e sono inquieti senza tregua?

    Invece, se vi dedicate a degli istanti liberi da questo genere di arrivismo e di piccolezza – e di quei momenti sorgono ogni giorno, basta essere attenti – allora, uscite dall’abitudine. L’atto che non è ostacolato da alcuno scopo è pura potenza. La meditazione libera da qualsiasi direzione volontaria, è puro splendore.

    Come voi dite, a una certa epoca mi è successo di tenere “corsi di meditazione”. Questa infelice formulazione ha forse lasciato credere che ci siano istruzioni speciali, qualche cosa da fare, da imparare, da memorizzare e portare con sé per tirarla fuori più tardi, quando si incontra la difficoltà a far fronte alla vita. No. Non ci sono sistemi, non ci sono trucchi. Fate la domanda di un “genere” di meditazione. Ora, finché la meditazione ha un genere, si tratta di un’attività mondana. Non è questione di meditazione buddista, di meditazione zen, di meditazione dinamica, di meditazione sufi, ecc. Tutto ciò è fumo negli occhi, spettacolo; non lasciatevi impressionare dalle immagini, per il decoro e la reputazione che si sono con fatica fatti i guru alla moda, i conduttori di ashram e i direttori di scuole di meditazione, che siano occidentali o orientali. Vedete, anche i cristiani tentano disperatamente di recuperare questa parola popolare da qualche decennio: dopo duemila anni di inutili chiacchere e la condanna della meditazione dell’attuale papa, c’è ora una meditazione cristiana…

    La questione di un “genere di meditazione” è quella legata ad un’autorità spirituale e a tutte le stupidaggini che vengono con quello. Sono stato personalmente testimone del desolante spettacolo di esseri umani prigionieri di un sistema di meditazione e di un’ideologia di liberazione personale; ho visto persone, a prima vista molto brillanti, essere completamente soggiogate dal pensiero, un infelice “essere realizzato”, afflitto dal bisogno compulsivo di essere approvato e ammirato. Le ho viste aderire ad una dottrina e seguire la linea del “partito” con la stessa cecità dei gesuiti o delle guardie rosse cinesi ai tempi di Mao. Bisogna aver visto i romantici adepti di quei gruppuscoli settari invischiarsi per anni in luoghi esotici per concentrarsi. Bisogna aver visto tutte queste persone ritirarsi in questi campi di concentramento e mettersi spesso dei tappi alle orecchie per “meditare”, per non sentire il rumore del mondo, che altro non è che il rumore di Dio. Posso testimoniare che venti, trent’anni più tardi, questi dormienti fanno sempre le stesse domande e ricevono sempre le stesse risposte, formulate nella stessa maniera, con le stesse parole. Dietro i farfugliamenti psicologici fatti dal loro guru attorno al tema, i credenti si sentono sempre freddolosi davanti alla vita e ai suoi grandi spazi aperti.

    Ringrazio gli dei di avermi messo in contatto con quella caricatura, dove il maestro è incapace di sentire la minima critica o un accenno ad un altro approccio e dove i discepoli si sentono immediatamente minacciati al suggerimento di un altro sistema o, supremo orrore, all’assenza di sistema. Questo fu per me una grande lezione: ho visto come nascono le sette – tutte le sette, di cui la più grande è la chiesa cattolica -, i sistemi, gli inquadramenti e le strutture. Ero seduto ai primi posti.

    Mettere pesantemente l’accento su una qualsiasi tecnica e su una ideologia per liberarsi, è una strategia per non sentire più la propria vita così com’è. Questo riflesso patologico di fronte alla paura e alla sofferenza (che non è nient’altro che avere problemi con la realtà) è, certo, un rimandare. Questo rimandare può essere necessario quando la nostra traiettoria passata nello spazio-tempo non ci lascia scelta, ma è pur sempre un rimandare.

    Per favore, siate un po’ seri! Se avete la capacità di capire questo, allora non sarete più ridotti ad andare a fare la coda per delle ore per ricevere l’abbraccio di una figura esotica, a incentivare le romantiche immagini popolari. Non sentirete più il bisogno di questo genere di pagliacciate. Sarete liberi da questa “freddolosità” che è la religione, sotto qualsiasi forma. Le religioni, le ideologie, i gruppi gerarchici, con i loro leader, la loro autorità, i loro dogmi, le loro tecniche e i loro programmi, per evitarvi di sentire la miseria di ciò che avete accatastato nella vostra vita, sono delle calamità, dalle quali potete liberarvi subito, senza tante storie. In tutti i gruppi religiosi, attorno a tutte le autorità spirituali, si trovano invariabilmente le stesse promesse di stare meglio più tardi. Dovete accettare di pensare e di vivere in quella maniera, di praticare quel rituale o quella meditazione, di borbottare quel mantra, tutte cose che vi insensibilizzano e vi rendono stupidi ora, allo scopo di liberarvi più tardi. Credete davvero che tutte queste sciocchezze vi possano essere di qualche utilità per vedere chiaro e comprendervi? Non dico che non bisogna sentirsi in risonanza con una corrente spirituale quando si presenta un’evidenza, ma identificarsi in un gruppo, voler far carriera nel buddismo o nel cristianesimo, è un sintomo di paura o di noia. Sarebbe meglio per voi sentire la vostra paura o la noia della vostra vita e di vederci chiaro, invece di andare a nascondervi e tremare in gruppo dietro una dottrina di liberazione futura.

    Quando praticate una tecnica, ripetete sempre la stessa cosa, provate a rivivere la stessa situazione, per esorcizzare tutto ciò che rimette in questione il vostro sapere sul mondo e su voi stessi. E’ completamente meccanico. Come potete sperare che un mucchio di condizionamenti vi porti un giorno alla libertà? E’ questa la grande illusione di questo genere di pratiche spirituali, la cui principale utilità è di far girare gli affari di quelli che vogliono salvarvi a tutti i costi, di quelli che vogliono liberarvi senza che siate presenti nella vostra vita, in breve, di tutti quelli che si credono indispensabili nella vostra vita. Si può comprendere la pratica di tecniche per imparare un’abilità professionale, per imparare il clarinetto o la boxe, ma per vivere la libertà…..

    Cosa c’è dunque dietro questa nevrosi ben radicata che consiste nell’affidarsi ad una tecnica, o ad un altro essere umano, o a un modo di pensare, o ad una nuova droga? La paura! La paura di sentire che in fin dei conti non si è assolutamente niente, o, almeno, niente di tutto ciò che si è potuto immaginare, comprese le immagini infantili che ci si crea su “Dio” o sul “Sé”. Non è un biasimo per quelli credono che una tecnica o un guru li dispensi dal vedersi e dal comprendersi: l’essere umano è ridotto a quelle sciocchezze perché non ha scelta, perché non ha la forza e l’umiltà di essere semplice, diretto e onesto con se stesso. Così, non potete domandare a un bambino di tre anni di comprendere ciò che un adulto può comprendere. Non si può imporre niente a nessuno. Non c’è alcun giudizio, solo una constatazione. Se invece avete l’umiltà di sentire questo senza paura, senza ritornare a dormire davanti a un “risvegliato”, in un gruppo o dietro un’ideologia, allora forse potete scoprire da soli che tutto è molto più semplice e infinitamente più bello di quello che la vostra memoria vi infligge.

    La meditazione non ha veramente niente a che vedere con una tecnica. Meditare è guardare per la prima volta, mentre praticare una tecnica consiste nel ripete per l’ennesima volta. Concentrarsi è astrarsi dalla vita, un mancare di rispetto a ciò che è lì. Cos’è che non volete vedere nella vostra vita, e perché? Non c’è da concentrarsi, non c’è che da ascoltare, guardare. Meditare non è fuggire gli oggetti, né andare a pesca per prenderli: sono due facce della stessa mancanza di maturità. Tutto ciò che ci si attende, tutto ciò che si spera, tutto ciò che si può comprendere, sono degli oggetti, cioè qualcosa che un osservatore taglia da ogni parte in rapporto ad altri “oggetti” e in rapporto allo sfondo silenzioso. Se andate a caccia, o a pesca, nel fitto del bosco rischiate di uccidere un animale o un pesce che, come voi, non domanda che di vivere. Non è certo segno di una gran sensibilità, ma quando andate ogni giorno alla pesca interiore per acchiappare qualcosa di sostanziale, date prova di una insensibilità ancor più fondamentale: forse non ucciderete un animale, ma ucciderete, o almeno seppellite, ciò che è vivo in voi. In capo a qualche anno, ingrosserete le file dei vecchi crostini che galleggiano nella zuppa cosiddetta spirituale del vecchio pianeta. Cercare di distinguere un oggetto, cercare di comprendere, cercare uno stato di coscienza, voler trascendere il mondo, diventare un essere realizzato, tutto ciò riflette una mancanza di chiarezza ed è ancora un compromesso.



    D: Ma, allora, la parola meditare ha un senso per voi?

    R: La meditazione è il totale rispetto di ciò che è lì, il rispetto della vita così com’è. E’ il rispetto di ciò che chiamo la mia vita, con il mio corpo e il mio psichismo, così come sono. È la non-violenza perfetta. Vuol dire che non agite più in un altro posto, o più tardi. Non pensate più alla vostra vita, ma la vivete direttamente e con chiarezza.

    Sapete cosa vuol dire vivere? Vuol dire essere presenti: sentire, gustare, guardare, ascoltare. Non è anestetizzare questa sensibilità vivendo in un mondo astratto, intessuto di nozioni fatte di parole. Quando vedete un albero, un cervo, un uomo, vi date veramente alla visione e anche a ciò che sentite in voi, vi abbandonate al tocco inferiore. Non state valutando l’età dell’albero, se è un cervo bello, o un uomo simpatico. Certo, tutte queste nozioni vi possono arrivare – non scegliete! – ma non mettete l’accento su di loro. Siete troppo occupati a sentire, a toccare, a gustare, per aver il tempo di rincorrere concetti e opinioni.

    Manca il tempo….. In generale, quando si percepisce un oggetto, un viso, o un’energia, cosa si fa immediatamente? Ci si allontana dalla realtà per andare verso le immagini suggerite dalla memoria. Così è vivere in modo astratto, complesso, virtuale. La vita è molto semplice, tranne quando la si guarda attraverso la nebbia della memoria. Osservate bene! Notate ci che accumulate al di sopra della percezione dell’oggetto fisico o mentale. Guardate ciò che costruite ancora che soffoca e spegne lo sguardo. Nel momento stesso in cui tuffate la mano nuda nella neve, non c’è niente da pensare, da giudicare, da analizzare, né da classificare. Nel momento stesso in cui sentite la tristezza, la collera, o la paura, non c’è più da pensare o da “comprendere”.

    A un certo momento, vi sembra strano cercare qualcos’altro da ciò che è lì, un’altra cosa da ciò che è offerto dalla vita. Veramente, questo sembra molto strano. Guardate i piccoli – quelli degli esseri umani e quelli degli animali – guardate come essi non sono che sguardo, ascolto, sensibilità, attenzione. È universale, è innato; ecco la nostra vera natura. Non è un segno chiaro? È con l’accumulo delle impressioni mentali, lasciate dalle innumerevoli esperienze passate, che ci mettiamo a vivere nell’abitudine. Con il tempo accettiamo l’idea che non è la prima volta, la sola volta, che apriamo gli occhi sul mondo. La nozione di oggetto allora si impone e non ci viene più di dubitare della realtà delle nostre immagini. Il nostro cervello, molto presto nella nostra vita, ha eretto un’immagine del “mondo” a partire dalle impressioni dei cinque sensi. Da allora siamo convinti della solidità delle cose “laggiù” e di un me “qui”. Ma se prendete degli allucinogeni, vedete in modo diverso e con la stessa convinzione. È davvero necessario drogarsi per vedere l’aspetto falso delle nostre fragili immagini del mondo? Basta essere attenti! Per quanto tempo andiamo a sognare e a sostituire un’immagine con un’altra?

    La vita meditativa è la maturità dello sguardo, in cui non c’è più la solita corsa bovina verso gli oggetti. È un persistere dello sguardo. È per impazienza che ci gettiamo su oggetti e situazioni. L’impazienza è la paura e questa paura si fonda unicamente su un pensiero.

    Meditare è persistere con ciò che è lì. Questo implica il rifiuto delle immagini. Non combatterle, non cercare di distruggerle., cosa c’è da combattere? No. Consiste nel rifiutare di accontentarsi del pallido riflesso della realtà che è l’immagine di se stessi. Quando state con “ciò che è lì”, ad un certo momento questa attenzione diventa silenzio, meraviglia, rapimento, tranquillità.

    La nebbia delle immagini si dissipa e resta una lucidità, nella quale non c’è più oggetto né soggetto. Meditare è vivere senza localizzarsi. Non c’è che puro sguardo, pura attenzione.

    Vivete nel marasma solo per mancanza di convinzione d’essere puro sguardo, pura luce cosciente. Convinzione vuol dire evidenza diretta, non conclusione intellettuale. Gli intellettuali vivono nella stessa paura degli altri, a causa della stessa deficienza di convinzione. Senza quella evidenza diretta, la vita sulla terra non è che un interminabile errare per tentare di spegnere la sete di esperienze e di comprensione. Finché non siete presenti a ciò che è lì nella vostra vita, chiaramente, semplicemente, non potete veder chiare le vostre costruzioni mentali e realizzare ciò che hanno di virtuale. La realtà sta sempre soffiando sul castello di carte fabbricate da voi, ma, finché fuggite di situazione in situazione, di pensiero in pensiero, siete come l’impaziente che entra in una stanza scura provenendo da fuori in inverno: tutto stordito dal chiarore del sole sulla neve, non vedendo niente per i primi istanti, si ritira da questa stanza, torna fuori, poi rientra di nuovo in un’altra, senza aver mai visto niente. Così rattristati, avete fatto il giro della vostra casa e vi sentite sempre così vuoti. Il nostro sguardo ha bisogno di una certa persistenza per distinguere. Allora, quella che chiamo meditazione è questa persistenza dello sguardo, questa insistenza dell’attenzione, senza scopo, senza proiezione di ciò che potrebbe vedere. D’altronde, non c’è niente da vedere! Nel cuore di quella attenzione, non sussiste presto che la pura luce cosciente, che è la vita stessa.



    D: Parlate dello sguardo che si esercita. Non somiglia ad una pratica?

    R: Non ci sono elementi tecnici di cui impossessarsi qui. Chi vi può insegnare lo sguardo? Esistono molte “tecniche di meditazione” sul mercato, ma si tratta di un artificio di marketing. Si può certo creare uno spazio meditativo, ma ciò che ci sarebbe da dire su una tecnica meditativa si riassumerebbe in poche parole. Dette queste, è vero che lo sguardo si esercita e diventa più competente, quando ci si dedica a dei momenti di silenzio senza scopo. È quello che vi permette di essere presenti quando soffia il vento della vita sui vostri piani e le vostre certezze. Ma non è qualcosa da praticare con lo scopo di essere presenti più tardi. Non è da memorizzare e farne tesoro. Questo viene come conseguenza naturale, non come un obiettivo da raggiungere. Quando siete rivolti verso un altro momento, voi dormite, sognate. Per esempio, quando avete finito i lavori della giornata, siete seduti e siete lì. Non andate a vedere altrove, non cercate ciò che potrebbe distarvi alla televisione, non cercate nel taccuino il numero di telefono di un amico che potrebbe essere il vostro clown di servizio per quella sera. Guardate ciò che è lì, sentite il vostro corpo, senza provare niente. In meditazione, non siete tenuti a niente, soprattutto a “meditare”! State semplicemente. Non c’è niente da seguire, niente da rifiutare. Lasciate venire, lasciate andare. Assistete a ciò che è lì, compreso ciò che la vostra memoria chiama “niente”. “Niente” è un altro concetto. Non c’è mai “niente”: voi siete sempre lì in quanto puro sguardo. Ma non provate a guardare questo “puro sguardo”! Realizzate che siete persi nei vostri pensieri? E allora? Assistete a questo, soltanto. Da sempre non fate che assistere alle modalità che chiamate la vostra vita. Vedrete presto che tutto è vuoto di sostanza, che non ci sono cose separate dallo sguardo, veramente!



    D: Che posto riservate alla preghiera?

    R: Pregare, nel senso in cui si adopera questo termine nella maggioranza del tempo, non ha un gran senso. Per la maggior parte delle persone, pregare significa domandare, supplicare “Dio” di intervenire nella loro piccola vita miserevole. Ma anche questo genere di preghiera è almeno il segno di un inizio di umiltà. Quando le loro solite strategie non sembrano portare guadagni, i superbi e gli arroganti si mettono a pregare. Quando i nazisti hanno invaso l’Unione Sovietica, nell’estate del 1941, e tutto sembrava perduto, perfino Stalin ha fatto riaprire le chiese…..

    Per la maggior parte delle persone, pregare è un riflesso: tremano quando hanno freddo, tossiscono quando la gola ha il solletico e pregano quando hanno paura e non capiscono più niente.

    Questo riflesso è ancora una strategia che mira in direzione di un qualunque se stesso; è una attività mondana e volgare. Vedo bene che, con un modo poetico, ci si rivolge ad una divinità o che, con lo stesso modo, si domanda a volte qualcosa per la propria vita personale, ma allora quella domanda non dovrebbe essere formulata a partire dalla convinzione d’essere un’entità separata. Certo, la letteratura sacra è costellata di preghiere che somigliano a delle domande, persino a delle implorazioni. Ma è sempre c un modo poetico.

    Potete benissimo chiedere, ma con la stessa maniera in cui chiedete il sonno quando andate a dormire. Non potete provocarlo. Certamente, se non vi distendete, non dormirete. Allora interrogate il dio del sonno. Andate a distendervi per suggerire il sonno, andate a vedere se è là. Il resto non è nelle vostre mani in quanto persona. In altre parole, il vostro corpo e il vostro psichismo sono i docili strumenti del dio. Non siete là come persona che esige di dormire. D’altronde, cosa succede quando vi distendete con l’idea che dovete dormire ad ogni costo, che voi volete dormire…..

    Pregare potrebbe essere questo: essere coscientemente lo strumento della vita. Potete allora interrogarvi per vedere se il vostro fegato non potrebbe liberarsi da certe energie, per vedere se il vostro nervo sciatico non potrebbe sciogliersi, per vedere se il vostro amico non potrebbe vedere schiarirsi la sua vita; cose come queste. Ma fatele sempre sperando che succeda quello che deve succedere. È il senso della preghiera di Gesù nell’orto degli ulivi, che domanda: “Padre, se è possibile, che questo calice si allontani. Però, non come voglio io, ma come tu vuoi”. In realtà, è il Padre che fa tutto, che è tutto. Il Padre, in quanto Gesù, non dubita di questo e può dunque “domandare” senza fuorviarsi, come fanno gli altri esseri umani. Di qui, la potenza delle sue “domande”. È proprio così che i malati guarivano in sua presenza.

    Allora, quando pregate, non intervenite in quanto immagine in cui vi siete identificati da così tanto tempo; voi, semplicemente, non ci siete.

    Quando pregate così, non mancate più di rispetto verso Dio, credendo che possa esserci qualcos’altro che non sia Lui.

    Potremmo forse terminare con la preghiera di Maitre Eckhart: “E ora, che Dio ci aiuti a raggiungere quella luce eterna!”.

  • La felicità si può localizzare?

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    3ème Millénarie n. 75 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini

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    “Questa felicità non è come l’ebbrezza del vino o quella delle ricchezze, e nemmeno somiglia all’unione con l’amato. (…) Quando ci si libera dalle differenziazioni accumulate, lo stato di felicità è un’allegrezza  paragonabile a mettere a terra un fardello”

    (Abhinavagupta - Otto stanze sull’incomparabile Kashmir. Inizio XI sec)

     
    Nonostante le storie che abbiamo l’abitudine di raccontarci, tutti conoscono intimamente la felicità, o piuttosto tutti
    sono la felicità. Cosa potrebbe esserci di più universale? Tutti gli esseri vi tendono spontaneamente. Tutto ciò che facciamo, tutto ciò che diciamo e tutto ciò che pensiamo è diretto verso la felicità.
    La sofferenza stessa è tutta quanta rivolta verso di lei. E’ a causa della felicità che può esserci la sofferenza; se no come faremmo a sapere che soffriamo? Da dove questo ci potrebbe venire?
    Ogni oggetto percepito nello stato di veglia è l’espressone della gioia inerente alla nostra profonda intimità, che è luce cosciente. E’ un po’ come l’universo del sogno, che è l’espressione stessa del sognatore e non può in alcun caso esserne separata. Il mondo è la storia della gioia.
    Da questa gioia, da questo rapimento senza tempo, sorge spontaneamente un’irresistibile slancio col quale l’Incomparabile, il Semplice appare a volte come qualcosa e a volte come chi conosce questo qualcosa. Questo impulso a manifestare
    ciò che è così bello si attualizza in un’apparente frattura e una cristallizzazione crescente attraverso le quali ciò che non cessa mai d’essere pura luce cosciente ne viene ad assumere i ruoli di soggetto e oggetto. Non bisogna però vederci delle tappe, ma piuttosto degli aspetti di ciò che chiamiamo universo.
    E’ per pura disattenzione che non ci rendiamo conto di questo e continuiamo a vivere nelle nostre mortifere abitudini.
    Quando credo di vedere un oggetto, cosa succede in realtà? Questo “oggetto” per effetto della memoria è staccato da tutto ciò che non è, e dallo sfondo. Il soggetto, anch’esso, si distacca. Questo processo è tanto rapido e incessante che non lo rileviamo fin dalla nostra più tenera infanzia. Vedete, quanto più il bambino invecchia e si fissa sempre di più nelle proprie immagini piuttosto che stare direttamente con ciò che è lì, più perde la sua capacità di allegria e di gioia spontanea.
    Alla fine tutto l’universo dello stato di veglia, compreso quello descritto dalla scienza, non è che un’immagine.
    E’ proprio per questo che siamo sempre così ignoranti di ciò che sono  veramente le cose così elementari come lo spazio, il tempo, la materia, la luce e la vita.
    Dopo tanta scienza nessun fisico è capace di dirvi che cosa è la materia. Nessun biologo può spiegarvi cos’
    è la vita. Gli psicologi e gli psichiatri possono ancor meno spiegarvi che cosa è la Coscienza. E dopo tanti anni sulla terra alla sua ricerca, chi di noi può dire che cosa è  la gioia? E’ che noi cerchiamo di spiegare il territorio con la mappa. La luce cosciente è tutto e la gioia è il suo profumo. L’atto viene dalla gioia, e non il contrario. Ogni atto è la gioia in cammino e non è mai separato di un millimetro. Quando si è presi da questa evidenza folgorante, si cessa d’agitarsi per appropriasi e conservare oggetti o persone o per cercare o fuggire situazioni.
    Cosa c’è allora da rimpiangere, da perdonare, da perseguire, da promettere?
    Quando si è scossi dalla verità semplice e sconvolgente, come si può ancora cercare di trasformarsi, purificarsi, equilibrarsi “risvegliarsi” o “realizzarsi”?  Questa agitazione non appare semplicemente più.  Le
    vie interventiste – tutti quegli insegnamenti profondamente inutili che vi chiedono di fare questo o quello, di adottare quella ideologia, questa o quella attitudine per giungere alla pace -, così rassicuranti per l’immaginario egotico, cadono. Non vi viene più l’idea di fare il buffone in un asilo spirituale. Improvvisamente non pretendete più di aver bisogno di un giocattolo per andare bene.
    Cercare la  gioia non è vederla, anche se è la gioia stessa il motore di questa ricerca.
    E’ l’identificazione della gioia con un’immagine - una traccia lasciata da una esperienza -, che ci fa credere che noi saremo felici senza questo cane, questo gatto, questa casa in campagna, questo matrimonio, questo divorzio o questo grande guru. Il desiderio è mosso dalla gioia, ma la sua espressione è collegata al conosciuto, al contenuto della memoria; cosa posso volere se non ciò che conosco? Il desiderio è sempre una restrizione, è una sofferenza. Tutte le sue forme, compresa la più “nobile” sono il desiderio d’
    altra cosa , che viene dal fatto che non sappiamo guardare ciò che è lì. Il desiderio sorge con la nozione che esista qualcosa d’ “altro”, una nozione assolutamente legata a quella alienazione, che è la sensazione di essere qualcuno.
    Guardate. Quando il vostro corpo vi manda un segnale ben localizzato, è perché ha una restrizione a questo punto e l’energia non circola liberamente. Questo si può trasformare in quella che chiamiamo malattia. Potete facilmente identificare il punto preciso dove avete male. Ma quando sentite il benessere nel vostro corpo, potete dire
    dove state bene? Il benessere non è da qualche parte, la gioia non è localizzabile. Non siete qualcuno. Localizzarsi nella miserevole immagine di un qualsiasi se-stesso crea una distanza, una separazione, e genera il mondo del desiderio e della paura che conosciamo. La distanza così creata e il movimento agitato che suscita, genera l’apparizione di quell’altro immaginario che è il tempo. Desiderare è desiderare ciò che è laggiù e questo non può essere concepito che nell’immaginario di un altro momento.
    Così dunque, il desiderio si nutre dell’immaginario di un passato e si proietta nella realtà virtuale di un futuro; ma non si esiste veramente che in un istante  atemporale, che noi abbiamo convenuto chiamare l’istante presente.
    Tentare di risolvere la questione del desiderio – la ricerca della gioia – nel mondo abituale, occupandosi del passato e del futuro, cioè analizzandosi (o pagando qualcuno per farlo) o prendendo buone decisioni riguardo alla propria vita futura, è ficcarsi di più nel lamentevole solco virtuale, nel quale la maggior parte degli esseri umani sono impelagati. La cosa non può davvero essere risolta, se non interessandosi a
    ciò che c’è piuttosto che rivolgersi verso ciò che non c’è e dà origine al tormento.
    “Tutto ciò che si rivela quando l’ondata d’impressioni sorge con veemenza, è quello stesso che bisogna osservare con intensità:  se tu vi apparivi e apparivi ancora all’inizio, nel mezzo e alla fine, oh, l’universo differenziato si dissolverà”

    (Abhinavagupta – Dodici stanze sulla realtà suprema. Kashmir. Inizio XI sec.).

     
    Quando sentite un desiderio, ciò che è importante non è il cosiddetto oggetto del desiderio – che non è lì -, ma il desiderio stesso. Quando vi interessate a ciò che sentite direttamente, come sapete che avete un desiderio? Come sapete che siete tormentati? Voi cominciate già a essere
    reali e l’idea d’essere qualcuno infelice se ne va. La sofferenza viene sempre da una immagine: la realtà, lei, è profondamente tranquilla e gioiosa. Quando realizzate che non fate che assistere a ciò che chiamate la vostra vita e che non siete un ammasso di molecole separate dall’universo che possono prendere delle decisioni “liberamente” e avere delle responsabilità, allora ciò che era aggrovigliato si distende naturalmente. Quando sentite la tensione e la paura legata ad ogni forma di desidero, senza localizzarvi di nuovo e diventare tutt’uno con la storia, quando constatate quanto tutto ciò non è che percezione di adesso e che questa percezione è solo una apparenza della pura luce cosciente che voi siete, non sentirete più l’urgenza di soddisfare il desiderio e nemmeno di reprimerlo.
    Sentite un’altra specie d’urgenza: quella di non fare nulla nell’immediato.
    In questo “non fare niente” ciò che si deve fare si compie, ma non c’è più quel patetico personaggio ansioso. Li’ c’è gioia, senza preavviso, in un momento di distrazione, dove avete dimenticato d’essere assillato da voi stesso.
    “Attrazione e repulsione, piacere e dolore, alzarsi e coricarsi, infatuazione e abbattimento ecc, tutti questi stati che partecipano alle forme dell’universo si manifestano come diversificate, ma nella loro natura non sono distinte. Ogni volta che afferri la particolarità di uno di questi stati, attento subito alla natura della Coscienza come identica a sé, perché, pieno di questa contemplazione, non ti rallegri?” (
    Abhivanagupta)
    Tutto è infinitamente più semplice che non si creda. Guardiamo molto, troppo lontano. Non c’è niente laggiù, non c’è domani. La felicità interiore non esiste più della felicità esteriore; c’è la luce cosciente, che è gioia senza oggetto. Il momento presente è una figura retorica, perché non c’è tempo, solo un Istante atemporale che include la storia del tempo.
    Quando la vostra gioia non è tranquillità, quando tende a qualcosa, è una gioia di anticipazione, cioè una agitazione dissimulata sotto l’apparenza di un falsa gioia – se siete abbastanza attenti a ciò che sentite veramente – e non più alla storia associata a tutto ciò che è memoria e proiezione -, vi accorgerete che ciò che avete prima chiamato distrattamente felicità o piacere, non è che tensione, paura e sofferenza.
    Nella gioia, non c’è nessuno che sia gioioso. Nella meraviglia, non c’è nessuno che si meraviglia.
    La gioia tranquilla non è inerte, è energia viva, ribollente; ma questa energia è libera, senza nessuno scopo, nessuna direzione, nessuna inquietitudine. La gioia vera non dispare né diminuisce di uno iota quando la vostra amichetta vi lascia, quando vostro marito vi tradisce, o quando vi capita di sapere che avete un cancro avanzato. Questa gioia potete sentirla in voi svegliandovi al mattino, prima di pensare alla vostra giornata, prima di ridiventare qualcuno, prima che la vostra persona, costretta, non ricominci ad agitarsi.
    Non dovete lottare e meritare la felicità, perché è il profumo della vostra vera natura. Non c’è niente da scegliere nello stato di veglia, più che nel sogno. Volersi appropriare di una cosa, di uno stato, della felicità, è sognare ancora. Ci si può risvegliare nello stato di veglia. Ma non ci si può dirigere deliberatamente verso questo “risveglio”, perché allora è ancora un’immagine, un nuovo oggetto, di cui appropriarsi.
    Conviene prima osservare onestamente quanto ci si localizzi costantemente, quanto ci si restringa senza posa, quanto si soffra per la fallace promessa di un domani virtuale.
    Basta questo; il resto succede naturalmente. Lo sforzo è segno d’ignoranza, d’essere. La vita è bella senza ragione.

  • Tutto si svela

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    3ème Millénaire n. 82 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini

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    3me Mill.: Nella nostra vita quotidiana è molto questione di energia, e quella questione si pone spesso in termini di mancanza. Da dove viene quella mancanza d’energia? Come porvi rimedio?
    J. B.  Quando si dice che si manca d’energia, non è veramente che se ne manca, ma piuttosto che non la si sente più. L’energia è sempre lì. In se stessa non è in quantità limitata. Ma nei nostri sistemi nervosi individuali, esiste una certa limitazione. La sensazione di mancanza d’energia viene dalle fughe! Basta vedere la quantità d’energia colossale spesa in una sola giornata per salvaguardare ciò che non siamo: ogni nostra storia, le nostre formazioni mentali. Passiamo molto tempo e spendiamo molta energia a salvaguardare qualcosa che lasceremo andarealla sera!
    Bisogna guardare il disordine, il caos che mettiamo nel cervello, e lavoriamo molto per mettervi quel caos. E di notte, il nostro cervello lavora molto per rimettervi un po’ d’ordine. E’ un doppio sperpero di energie. Costruiamo e distruggiamo continuamente. E’ diventato abituale.
    Le persone si alzano al mattino e sentono mancanza d’energia. Non è normale. E’ il segno di un modo di vivere dove non si vede ciò che si fa. Se lo si vedesse, questo cambierebbe immediatamente. Viviamo di giorno come addormentati e non arriviamo a dormire la notte! E’ il contrario di un processo naturale. Non si tratta tanto di cercare energia, ma piuttosto di vedere ad ogni istante come mi comporto per dilapidarla.
     
    3me Mill.:  Parlate del problema della confusione interiore, della lotta che si svolge in me sempre.
    J.B.   Succedono in me conflitti continuamente. Montagne di condizionamenti mi dicono: prenditi quell’oggetto. Altre montagne di condizionamenti mi dicono: “non prenderlo”.
     Le persone che si mettono nelle vie spirituali sembrano essere ancora più in conflitto che nella via mondana abituale, prese tra due blocchi di conflitti. E aspettiamo la libertà dalla collisione tra due masse continentali, tra due ghiacciai, ma questo non è possibile. Tutto quello non è che condizionamento, memoria. Lì non c’è da aspettarsi nulla di nuovo. La libertà, e anche l’energia, non possono venire da un cammino nel tempo, da un cammino personale, volontario. La libertà non è nel tempo.
     
    3me Mill.:  Se le persone avviate a un percorso di conoscenza di sé sembrano essere più in conflitto degli altri, forse è dovuto al fatto che i loro conflitti interiori con il loro percorso diventano più evidenti?
    J.B.   E’ uno dei primi sintomi che si manifestano quando si è stati toccati, scossi da un istante nelle braccia del silenzio, della libertà. Poi si guarda la propria vita e si vedono molti elementi che non sono stati chiariti da quell’istante. Ci si mette allora in cammino coscientemente e, paradossalmente, si ha l’impressione di regredire, di soffrire più di prima, che il dolore sia più grande.
    In realtà, non si fa che sentire di più il dolore che già c’era, perché la nostra sensibilità si fa più raffinata.
    Si sente  ciò che si sta facendo o vivendo. Sulla superficie di un lago la cui acqua è chiara, il più piccolo sasso avrà un effetto visibile. Al contrario, se l’acqua è molto torbida, un sasso non farà molta differenza. Quando vediamo il nostro modo di vivere, qualcosa comincia a depositarsi in sé. Si opera naturalmente una chiarezza, e vediamo fino a qual punto sia doloroso.
    Come ho fatto a vivere così? Ma questo non cambia dall’oggi al domani, perché è enorme la forza dell’abitudine.
    Il fatto di vedere una volta, o dieci volte, non basta, perché il cielo si rannuvola e si chiude subito. Non c’è abbastanza energia per fare esplodere tutto, per bruciare i residui della memoria. Bisogna dunque ritornare continuamente a quella presa di coscienza.
     
    3me Mill.:  Questo vuol dire anche che si tratta di ricordarsi, non con la memoria, ma piuttosto con un movimento interiore, d’energia, che d’altronde non è personale, che risponde  a una domanda più intima?
    J.B. E’ sempre l’energia che ci spinge. Essa non è mai personale, ma cominciamo a rendercene conto. Quando vivevamo una vita cosiddetta personale, questa energia era già impersonale, ma non ne avevamo coscienza. Era sempre la stessa energia. Che cos’è l’energia alla fine? E’ ciò che mi spinge a fare una domanda, a cercare risposta o a darla, a immaginare un’immagine, a constatare che è un’immagine e smantellarla. E’ quello che mi resta quando tutte le immagini sono smantellate, è questa l’energia. Ma questa volta, niente viene a ricoprirla. E’ senza immagine.
     
    3me Mill.:   Non c’è quindi niente da fare salvo guardare la situazione in termini di  pensieri, emozioni, sensazioni, e così di confusione tra tutti questi elementi della nostra vita?
    J.B.   Ogni volta che decido qualcosa, che ho l’impressione, che mi faccio credere che decido qualcosa, che mi lancio in un percorso volontario, interventista, ogni volta che decido di intervenire nella mia vita per modificare il corso degli avvenimenti, mi fuorvio, mi allontano sempre più ogni volta.
    Che cosa posso volere se non il contenuto della mia memoria? Come farei per  volere qualche cosa che non è già nella memoria? Immagini, e ancora immagini; tracce lasciate dalle esperienze passate sotto forma di impressioni.
     
    Quando mi lancio in un percorso deliberato, voglio ricreare il passato.
    E perché? Perché è rassicurante, protegge la mia costruzione.
     
    E’ un riflesso di sopravvivenza. Ogni percorso volontario, compreso quello spirituale, è un percorso di sopravvivenza. Si tratta spesso di usare nuove tattiche per non sentire più ciò che sisente nella propria vita. Non si tratta di smettere le pratiche, non è questo in gioco. Al contrario questo sarebbe interventismo, l’idea di poter arrivare ad uno scopo. Questa idea cade a un dato momento e rimane la pratica nella sua purezza. L’azione, l’energia non sono più rivendicate in nome di un’immagine. L’energia stessa allora è completamente liberata. 
    Perché un cammino spirituale è lungo, quando basta un solo istante? Perché ad ogni tappa, rivendico, mi approprio della pratica. Quel meccanismo egoico in noi è molto forte. Dispone ditutte le risorse intellettuali e le usa abbondantemente per la sua sopravvivenza. Quel meccanismo è così forte che si è  nella situazione in cui si mette la testa sott’acqua. In capo a un minuto, la forza che ce la fa ritirare è enorme. E’ la stessa intensità che è presente nel meccanismo egoico, che ci fa pretendere una via personale. C’è una tensione continua, ed è quella tensione che fa sì che l’energia sia quasi totalmente perduta.
     
    Ma a un certo momento, tutto diventa chiaro. In quel momento di chiarezza tutto può aprirsi.
    Una sola cosa allora funziona: la grazia, l’evidenza di ciò che non sono.
    Quando una cosa è evidente, non c’è alcun bisogno di un professore, di un maestro, di un libro per un consiglio. La via è azione, diretta.
    Il pensiero ha sempre la sua parola, ma sul piano funzionale. Quando ci s’innamora, non si ha bisogno d’altro. L’energia è lì in abbondanza.
     
    Stentavate a trascinarvi fuori dal letto al mattino e improvvisamente, una bella sera, fate un incontro meraviglioso. L’indomani mattina siete un sole, una stella. Ma dov’era prima questaenergia? Era prigioniera d’una immagine di sé, di quella restrizione che è un’immagine. L’incontro ha risvegliato un’immagine atemporale. Perché, che succede quando si è sedotti da una persona, una tradizione, un paese? Siamo all’ascolto, senza memoria. Abbiamo la capacità di essere meravigliati: è la prima volta. La prima volta che si è sedotti. La seconda volta non lo siè più: ci si ricorda. La difficoltà è che non è quasi mai più la prima volta. Applichiamo questo stesso meccanismo alla ricerca spirituale. E’ la quinta volta che medito, la decima volta, sonovent’anni che medito… Allora sono diventato un meditatore, un esperto, un saggio. Ci vuole allora qualcosa di enorme per scuotermi, un grande colpo.
     
    3me Mill.   La ricerca spirituale richiede l’osservazione. Questa ha diverse velocità, diverse energie? Se si propone a qualcuno di osservarsi durante la vita quotidiana, lo fa dapprima con la testa. La qualità d’osservazione di cui testimoniate è altra da quella osservazione della testa, duale?
    J.B.   Lo sguardo che osserva è senza direzione. Si tratta di un’attenzione non direzionale.
     
    Non si osserva nell’intento di migliorarsi, perché se no è falso in partenza, come guardare un paesaggio con le lenti colorate.
     
    Si tratta di una attenzione senza scelta. Questo sguardo non è personale. La frase scritta sul tempio de Delfi “conosci te stesso”, non punta verso l’analisi, il confronto. Vedere ciò che è vivente. Chi è che è lì? Sempre lì? Se poniamo la seguente domanda a una persona. Qual è l’elemento comune a tutti gli avvenimenti della tua vita, belli e brutti? Vedrà che è essa stessa.
     
    Ero là per sapere  che ero felice o infelice, che ero alla ricerca.
     
    Non possiamo metterci in cerca  di quella cosa, che non è né apparsa né scomparsa.
     
    Sarebbe un percorso, un’attenzione orientata. Tutto ciò che si può fare è guardare come si guarda. Guardarmi reagire, guardarmi intervenire nel mio sguardo. Vedere che mi volto sempre verso la mia memoria. Essere attento. È subito vedere come sono disattento. E’ tutto quello che c’è da fare. Il resto non è nelle nostre mani. Non posso fare altro che vedere il modo da cuidistolgo l’attenzione.
    Si domandava  a Jean Sebastian Bach come faceva a comporre la sua musica e rispondeva che non era tanto questione di comporre la musica, quanto di non guastarla alzandosi la mattina: “è Dio che  compone e io scrivo il dettato”. Come persona Bach non c'è, è al servizio della musica. Per noi si tratta di diventare un buon vivente come Bach era un buon musicista.
    Un buon vivente sente la vita, egli è un servitore della vita. Il miglior modo di vivere è servire. E’ ciò che si produce naturalmente quando si smette di credere di essere ciò che non si è.Finché ci prendiamo per un’immagine, siamo in un’enorme miseria e non possiamo fare altro che approdare ogni mattina nella nostra giornata volendo riempirsi, servirsi. Allora il mondo intero è fatto di pedoni sulla nostra scacchiera, compresi i nostri familiari ai quali diciamo più volte al giorno di amare. Non si può che cercare di utilizzare tutto  in quella situazione. Maimprovvisamente, si vede il meccanismo, e quella rivelazione è molto fertile. Quando Gesù è morto, un delle ultime frasi fu: “Non sanno quello che fanno”. Parlava di noi, degli umani. Noi non sappiamo quello che facciamo. Non vediamo e ci adoperiamo per non vedere. Il nostro meccanismo egoico fa di tutto per distorcere lo sguardo.
     
    3me Mill.:  Voi dite: “essere attenti alla propria disattenzione”. Il dormiente comincia a dare uno sguardo al suo sonno, ma è sgradevole. La nostra sofferenza diventa palese. Che fare di questa sofferenza?
    J.B.   Ogni sofferenza è rivolta verso la gioia. Se non ci fosse la gioia, non potremmo soffrire. Ho il presentimento molto profondo della gioia. Noi abbiamo tutto questo.  Al tempo stesso mi vedo come qualcosa che non lo vive. L’incontro dei due è intollerabile. E’ quella la sofferenza. Ogni disturbo, anche piccolo, è un sintomo, un segnale d’allarme…
    Quando gli esseri umani soffrono, si rimettono in questione.
     
    Cominciano a ascoltare, a diventare umili, per la prima volta. Ma se hanno la disgrazia che le cose si aggiustano, allora si rimettono a dormire!
     
    Ma dopo essere passati più volte per lo stesso ciclo emozionale, questo non è più possibile. E’ troppo, ci cadono le braccia. E’ il momento in cui la grazia comincia a entrare nella nostra vita, nel “io non so”. Può accadere qualcosa di nuovo. Improvvisamente si prende coscienza che si dormiva. Si comincia a vivere per la prima volta. E vivere è sentire. Si vede dunque che non si sentiva. Così, prima o poi, il modo in cui si vive porta alla sofferenza. E’ una grazia, non per il dolore in sé, ma per l’apertura che porta. La sofferenza non è necessaria, ma quando dormiamo molto profondamente, lo diventa. Se siamo un po’ sensibili, bastano piccole prove. Se si è molto insensibili, saranno necessarie grandi prove per risvegliarci.
     
    3me Mill.:  Uno shock, o degli shock sono dunque necessari. Nello stesso tempo, quando soffriamo, la prima reazione è rifiutare, lottare. Quella reazione condizionata scatta alla velocità di un lampo. Non si vede.
    J.B.   E’ la paura della morte. Il desiderio di sopravvivenza. Ma quando non c’è più uscita, quando più nessuno può consolare, né i genitori, né il marito o la moglie, né i figli o il cane, o la musica, le persone spesso si tolgono la vita. Paradossalmente, è ancora un meccanismo di sopravvivenza, l’ultima tattica per sopravvivere. L’immagine che essi hanno di se stessi è troppo minacciata, allora mettono fine alla storia. Ma è ancora un riflesso egoico.
    La sola risposta nuova, il solo avvenimento nuovo che possa accadere è il momento in cui vediamo il nostro modo di vivere, dove noi improvvisamente siamo lì. La rivelazione è istantanea.Quando qualcuno fa una buona battuta, c’è il clic, e non si ride al 20% o al 50%. La risata esplode. Quando si realizza il modo in cui si vive, qualcosa esplode immediatamente. Non è progressivo. Ciò che è progressivo è il modo in cui quella rivelazione si attualizza, si espande, nei diversi elementi della vita. Le memorie sono lunghe da bruciare, ma l’irruzione della luce non è progressiva e non può nemmeno essere provocata. Le mie azioni non portano alla chiarezza nella mia vita.
     
    E’ la chiarezza che illumina le mie azioni, porta a un cambiamento, senza nessun bisogno di disciplina o di sforzo. Non c’è che l’evidenza che funziona. Se ho ancora bisogno di sforzi, allora devo guardare come sono ancora preso da certe cose.
     
    3me Mill.:   Parlavate di essere lì. Essere lì, è un sentimento, una sensazione. Quale ruolo gioca il corpo in questo?
    J.B.    Il corpo ha  questo di meraviglioso, che è straordinario. Lui non racconta storie. È il mezzo privilegiato. Come si fa per sentire la tristezza? Con il corpo. Continuamente ritornare al corpo, a ciò che è di base, vero. Questo permette di vedere il lato fallace delle nostre costruzioni mentali. Dire: “ho male a un ginocchio” è un’immagine. Come si fa per saperlo? E’ tattile. Il resto è della memoria che dice: “è il mio ginocchio”. Perché soffro quando è quel ginocchio? Perché è il mio. Costruisco una storia attorno a me, al mio ginocchio. All’inizio, non si tratta che di una sensazione tattile, ma poi entro nella storia e soffro.
    E’ così che si confonde dolore e sofferenza.
    Ritornare alla sensazione, è rendere la nostra vita più sana, renderle la salute. Nello stesso tempo, se dico di sentire il corpo, vedo che ho un’immagine del corpo. Ma sentire il corpo è sentire tout court. A un certo momento, sentendo il corpo, si sente che i limiti si spezzano. Il corpo diventa la stanza, la casa,  diventa senza limiti. Non c’è più localizzazione. Andiamo a vedere ciò che è il corpo e vedremo che le nostre immagini non tengono. Sentire è ciò che c’è di più potente. L’attenzione fa esplodere tutte le nostre storie. Ma c’è sempre quel riflessoegoico, ed è per quello che dal momento che lo si sente troppo, si ha tendenza a rifugiarsi di nuovo nei propri concetti, nelle proprie immagini.
     
    3me Mill.:   Si, c’è una resistenza incredibile a sentire il corpo. Preferisco vivere la mia vita in uno stato meccanico, non sentito.
    J.B.   Non si arretra davanti ad alcuna bassezza per sopravvivere un minuto di più, per avere ancora una vita personale. E’ il riflesso più forte. E’ l’attaccamento alla vita. E noi siamo la vita. Sappiamo intimamente che non possiamo morire e nello stesso tempo ci prendiamo per qualcosa che, con ogni evidenza, sarà smantellato. L’incontro dei due nel mio cervello è intollerabile. C’è una sorta di rivolta. Morire? No, non è possibile. E il presentimento di essere atemporali è in noi. Non siamo nati, non moriremo. L’universo stesso è atemporale; è lì dall’eternità. Quando comperate un romanzo, è tutto nelle vostre mani. Ma quando cominciate a leggerlo, il tempo comincia. Siamo tutti tuffati nelle pagine del libro e ci dispiace  della fine. Nessuna delle nostre inquietudini è fondata, ma si può soffrire orribilmente di qualcosa di irreale. Ritornare alla sensazione permette di essere lì, presente. Se sono lì, ciò che è nascosto, si svela. Se non sono lì, nessuno lo sarà al mio posto.
     
    3me Mill.  Parlate di ciò che è nascosto, i nodi emozionali. Sul piano dell’energia, c’è come una trasformazione dell’energia nel momento in cui il nodo si scioglie. Che succede a quell’energia?
    J.B.   Fondamentalmente, niente. Ma è come se l’energia, durante migliaia di anni fosse costretta in un turbine o qualcosa che dice: esisto in quanto persona. A un certo momento quel turbine scompare. Non va da nessuna parte. Quando si soffia sulla fiamma e si spegne, dov’è andata? Da nessuna parte. Non capita niente all’energia. Era una bella storia. L’energia èenergia.
     
    3me Mill.:  Però posso sentire situazioni di sofferenza, di tristezza, e se permetto alla tristezza di vivere dandole spaziosi trasforma su un piano energetico.
    J.B.   Per l’energia in sé, non succede niente, ma il sistema nervoso è ancora lì. Sento un’abbondanza di energia perché non è più spesa in conflitti interminabili, resistenze, calcoli, lamenti, esitazioni. Ciò che devo o non devo fare non si pone più. L’energia parte dritta come una freccia, e il pensiero interviene in modo funzionale. Ma è tutto. Un essere umano liberato vive in modo diretto gli avvenimenti della vita. Quando cessa la dilapidazione, l’energia scorre come un torrente e questa energia rende disponibili ad ascoltare e servire chi ci circonda.
     
    3me Mill.:  Questa situazione di chiarezza interiore, apertura dello sguardo, è sconosciuta all’uomo ordinario.
    J.B.     E’ poco conosciuta, ma è normale.  Si fa un gran parlare dei risvegliati, ma sono delle persone normali. Siamo noi gli anormali.
     
    Le persone  rinchiuse negli ospedali psichiatrici non sono diverse da noi, la loro follia ha più ampiezza della nostra, ma segue lo stesso meccanismo.
    Noi viviamo in modo irreale, e quando il meccanismo è palesato attraverso la grazia della vita, si scioglie. E’ quello il vero abbandono.
    Quando il gioco delle energie ha provocato quello sciogliersi, cosa resta? Tutto ciò che era celato, si è rivelato ed è la vita normale che appare, la vita senza intermediari. Un torrente scorre attraverso il corpo, il sistema nervoso, in modo irrefrenabile. Tutto ciò che era restrizione, tutti i cammini nei quali l’energia si dilapidava, saltano. Tutto ciò che era contratto, si dilata. E’ lo svelarsi, in ogni senso della parola. E’ la liberazione della generosità naturale. Tutto questo richiede di essere attenti, di guardare ciò che è lì con intensità, con uno sguardo persistente, e tutto si svela.

  • Risvegliarsi dallo stato di veglia ( prima parte)

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    3ème Millénaire n.88 – Traduzione della dr.ssa Luciana Scalabrini


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    3m.   L’immaginazione è una parola molto screditata negli ambienti cosiddetti spirituali, in cui l’accento è messo sul silenzio, o sulla quiete del pensiero. Ma nello stesso tempo, l’immaginazione è una facoltà fondamentale perché ad esempio permette la creatività, e questa può essere presente a tutti i livelli della vita, nel modo di fare le faccende o la cucina, o in un’invenzione che facilita la vita delle persone. Vorrei avere il vostro parere su questo.
    G.B.  L’universo intero è immaginato. Il problema non è l’immaginazione, ma piuttosto il pensiero che si appropria dell’immaginazione, che non è qualcosa di personale, ma il fatto stesso della Luce cosciente. Tutto è quella bellezza!
    Non ci sono delle cose nell’universo, cioè degli oggetti separati dalle energie della coscienza. Anche se non ci applichiamo per saperlo, la meccanica quantica è stata molto chiara su questo nel 20° secolo. Il mondo dello stato di veglia non è molto diverso dallo stato di sogno. In quei due stati di coscienza, gli oggetti non esistono che per la conoscenza che ne abbiamo. Comprendiamo bene questo in ciò che riguarda lo stato di sonno, perché siamo usciti da quello stato. Ebbene, è lo stesso possibile risvegliarsi dallo stato di veglia.
     
    E’ il piccolo universo di credenze al quale teniamo tanto che ci impedisce di realizzare che il mondo intero è immaginato.
     
    Le religioni che hanno invaso l’occidente nel passato e il nuovo sistema di credenze che è lo scientismo hanno molto contribuito a mantenerci nella nebbia.
    Siamo così convinti della realtà oggettiva del mondo dello stato di veglia che questo a volte è attendibile. Non è che il mondo sia una completa illusione, come lo pretende a volte il Vedanta o che tutto sia solo una coproduzione condizionata fondata su nessuna realtà come dicono i buddisti. Bisogna diffidare di quegli slogan, che hanno del vero, ma ci addormentano quando sono ripetuti come dei pappagalli. Soprattutto non bisognerebbe accontentarsi e adoperarli come verità finali, perché lì non sono giuste. Il mondo è molto reale, se no come potrei ricevere qualcosa? Come potrebbe sorgere qualcosa da niente? Siamo seri.
     
    3m.  Si, il mondo esiste, ma non è niente di quello che avevamo creduto che fosse, esattamente come il mondo di sogno al momento in cui ne usciamo. Tutti i personaggi e gli oggetti, tutte le situazioni del sogno non sono niente senza la conoscenza che se ne ha. Ora, come si può avere conoscenza senza il sognatore?
    G. B.  Il problema nasce quando i personaggi del sogno si prendono per semplici individui separati, con una conoscenza e un potere limitato, appropriandosi di tutte le energie che attraversano il loro piccolo mondo personale, compresa l’immaginazione. In quel momento l’immaginazione perde la sua efficacia: non potete creare qualcosa come individui. Ma guardate tutto ciò che avete creato e continuate a creare come pura Luce cosciente! Chi può accettare questo? Si dice “No, come posso creare tutto questo?” E’ il personaggio dello stato di veglia che lo dice e, dal suo punto di vista, ha ragione. Ma non siamo quel personaggio, siamo infinitamente di più.
     
    Le tre religioni monoteiste(delle monolatrie, in verità) che hanno tanto diffuso la confusione e la violenza sulla terra, dicono tutte  che è blasfemo vedersi come Dio. Vedete quanti  profeti, santi e saggi (eretici) sono stati lapidati, crocifissi, decapitati e bruciati da migliaia d’anni. Ora, la sola vera bestemmia è credere che ci possa altro oltre Dio!
     
    Come si potrebbe avere altro se non il sognatore nel mondo del sogno… Se esiste altro oltre Dio, allora di quale specie di Dio stiamo parlando? Come può essere onnipotente e onnisciente se c’è qualcosa che non è lui? E se non c’è che Lui, allora qual è la natura dell’universo e chi siamo noi? Certo, la difficoltà nasce  quando si prova  a vedersi come Dio senza abbandonare la credenza che si è un individuo. Allora, è tutto irreale.
    L’esistenza di un Dio personale che regge a suo modo un mondo esteriore a lui è una pura e semplice aberrazione. Le religioni monoteiste sono, tanto per la loro negazione delle gerarchie delle energie del mondo invisibile che per la personalizzazione di un Dio assoluto, in contraddizione con l’esperienza dei visionari e dei mistici di tutti i luoghi, di tutte le tradizioni spirituali e di tutte le epoche. La negazione della realtà delle energie (degli dei) a detrimento di un grande Dittatore celeste, ha aperto la porta all’applicazione di leggi morali inventate da degli uomini per tiranneggiare i loro simili. Senza contare che la separazione tra un creatore e la sua creazione ha alla fine portato allo sfruttamento della natura da parte dell’uomo.
     
    Quando si guarda bene, non può più essere questione di un Dio che ha creato una volta per tutte un universo diverso da lui e che, una volta terminato, sarebbe diventato inattivo, salvo per intervenire secondo i suoi  umori nella storia dei disgraziati peccatori che intanto si dispiaceva di avere creato e che destina all’inferno eterno  quando non lo amano, e non agiscono secondo la sua volontà. Ma, certo, quel Dio ci ama…
    Si possono deplorare molte tendenze moderne in Occidente, ma almeno la maggior parte delle persone hanno finito per realizzare che, contrariamente a ciò che propaga la religione infantile giudaico- cristiana nelle menti deboli, sono gli uomini che hanno creato quel dio umbratile, moralizzatore e crudele che ricompensa i buoni e punisce i cattivi per l’eternità.
     
    L’Oriente tradizionale ha sempre avuto una visione molto diversa dalle tre religioni monoteiste occidentali. Per esempio, i maestri dello schivaismo non duale del Cachemire considerano che il mondo sia lo stesso Shiva. E’ la natura stessa della Luce cosciente(o Shiva l’Incomparabile, l’Inconcepibile), che fa sorgere il mondo, un mondo che non perde mai la propria perfetta interiorità nel rapporto col sognatore.
     
    La sua natura consiste nell’essere cosciente. Come dire? E’ un contatto diretto, senza nessun intermediario, un toccare interiore di se stesso. La Luce cosciente non è una semplice luce statica che illumina oggetti là in basso. Essa è dinamica, e quel dinamismo si chiama Sakti, che è presa di coscienza di sé. Ciò che chiamiamo mondo è quella presa di coscienza di sé di Shiva, la potenza rende l’universo non solo possibile, ma inevitabile. Non si può comprendere questo, bisogna intuirlo. In ogni caso, non si devono vedere i due aspetti della Luce cosciente ( la sua pura luminosità e il suo dinamismo) come separati; sarebbe come tentare di separare la luce dal calore del fuoco. Lo shivaismo non duale del Cachemire non riconosce nessun mondo fisico nel senso in cui l’intendiamo noi, cioè diverso dalla coscienza stessa. Il mondo è letteralmente l’immaginazione di Shiva. Allora non è niente…
     
    “Offriamo le nostre lodi al Signore, sorgente del glorioso svolgimento  della ruota delle energie, a Lui che, aprendo e chiudendo gli occhi, fa apparire e sparire l’universo”.

                                                                                                           (Spandakarika, 1)

     
    Ogni essere umano ha la possibilità di avere la piena efficienza dell’immaginazione originale. Ma per questo bisogna che cessi  l’automutilazione che consiste  per prendersi per una miserabile immagine di se stessi, se no quella che chiamiamo immaginazione non è che una fantasia  fondata sulle immagini della memoria. Quella cessazione non può venire da una volontà personale, quella chimera. Cosa posso volere se non il contenuto della memoria? Ora, il contenuto della memoria è fatto da immagini e tutte le immagini sono limitate, troppo piccole. Prendersi per l’uomo più potente, più brillante, è troppo poco.  Anche un presidente sarà troppo piccolo, vedete…
    A un certo momento, viene una sorta di compassione per quegli uomini di potere e le loro mostruose agitazioni. Hanno molta energia e per questo sono delle caricature dei nostri modi abituali di vivere. Infine ci rappresentano molto bene: la democrazia è ben  servita. Ma volere diventare chiunque sia, è una profonda mancanza d’immaginazione.
     
    Quando vedo chiaramente quell’inutile spreco di energie, si fa una calma. In questa tranquillità, in questo ascolto, può sorgere qualcos’altro. Non ci sono più sforzi nel senso in cui intendiamo quella parola. Si entra lucidamente in una corrente d’energia potente senza che il pensiero intervenga, un po’ come un padre  si getta su di un orso per salvare il suo bambino: accorre come un lampo, senza nemmeno pensare a cosa farà. E’ il cammino della passione, della meraviglia, anche del terrore. S’indirizza verso chi è già pacificato e interiorizzato.
     
    Non ci si interessa più agli oggetti e alle pratiche che non riguardano direttamente il reale. Piuttosto ci si dedica al potere dell’evocazione, che,  nello shivaismo non duale del Cashmire, si chiama bhavana, un concetto difficile da tradurre in una sola parola. Consiste in uno slancio dell’immaginazione a cui si associa una convinzione totale così intensa che l’intelletto vi sia ancora. Questo slancio senza sforzo, vero rilassamento in ogni senso del termine, permette di entrare in contatto con l’energia indifferenziata. Mentre i contorni del me fabbricato si dissolvono, l’assorbimento nell’energia diventa totale. Il vuoto così scavato lascia splendere l’intuizione profonda in tutta libertà. Quell’intuizione è consolidata con la possente evocazione che è bhavana, e può allora dissolvere i nodi mentali formati da lunga data e  scacciare tutte le credenze legate ai riflessi egotici.
    (continua…)

  • Risvegliarsi dallo stato di veglia ( seconda parte)

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    3ème Millénaire n.88 – Traduzione della dr.ssa Luciana Scalabrini - ( seconda parte)      

     
    La viva immaginazione chiamata
    bhavana supera in profondità e in potenza la concentrazione o la meditazione (dhyana), che si fissano a degli oggetti precisi separati e, almeno nello stadio iniziale, implicano una dualità tra soggetto concentrato e l’oggetto scelto.
    Infatti
    bhavana ( il cui senso letterale si riferisce al fatto d’esistere) è a mezza strada tra il pensiero concettuale  a due poli (vikalpa) e la indicibile intuizione (nirvikalpa) della realtà, di cui non si può dire nulla. Mentre la lentezza è propria della meditazione, bhavana è caratterizzata da una velocità che non lascia nessuno spazio alla riflessione. In essa non ci sono oggetti chiaramente definiti, solo una potente energia pura. Mentre nei riflessi egotici si tenta ancora di scegliere, qui si è scelti.
     
    La direzione è sia inesistente che molto fluida, come se si issassero le vele per lasciare che il vento le gonfi.  Ma, contrariamente alle vele, non si è trascinati  in una qualsiasi direzione. E’ come quando si tenta di ricordare una parola dimenticata: si riprende contatto con una sorta di energia interiore grezza, ma senza direzione precisa, perché ancora non se ne può articolare la parola. Però la presa di contatto è molto precisa, perché si rifiuta subito ogni altra parola che non sia quella cercata.
    Qui siamo nella situazione dove gli oggetti non sono ancora cristallizzati come oggetti: si comprende allora perché è difficile dare una definizione di
    bhavana. Al massimo si può dire che permette di squarciare lo spazio e il tempo. Si può parlare di “una pratica mistica realizzatrice, che realizza, fa essere, rendendola evidente, una cosa che, benchè reale, sembrava irreale perché non evidente”
     
    In molte evocazioni tipiche di
    bhavana, si esplorano in una sola volta tutte le direzioni dello spazio, tutte le parti del proprio corpo, o tutte quelle dell'universo senza nessuna successione. E' così che l'aspirante cade nel Cuore, nel Tra- due (madya) senza scelta ed è preso dalla atemporalità. Si è così evocata l'immensità spaziale e altre potenti immagini che sopprimono i limiti artificiali ai quali si crede legato l’uomo ordinario.
     
    Gli abituali riferimenti che rassicurano l’ego centinaia di volte al giorno si interrompono, saltano perfino. Quella percezione decisiva è opera dell’energia effervescente e del contrasto  tra il limitato e l’illimitato. Essa cambia tutto nella nostra maniera di vivere e di comunicare.
     
    Quando si parla di comunicazione, si fa come se due persone potessero comunicare realmente. Ma ciò che osservo in me è che, quando la persona di fronte comincia a parlare, il mio pensiero vaga. Non ascolto, per esempio ho già in testa una risposta. Ho un’immagine  di quella persona, mi piace o non mi piace e in ogni caso non la vedo veramente e non l’ascolto. Come è possibile entrare davvero in comunicazione con qualcuno?
    Guardo i visi delle persone e subito dopo la mia memoria mi dice: è un vecchio, è un giovane, è bello, non lo è, è così, non è così. Tutto il giorno passa così in superficie, con rare puntate nella verticalità, che non durano molto. Sentire quel movimento è possibile, ancora prima che si costruisca questa storia. Vederlo è possibile, ma abbiamo tendenza a passare oltre per mancanza d’attenzione. Si vive nell’abitudine. Vederlo richiede uno sguardo diretto, senza giudizi, senza immagini, uno sguardo costante. Quando si è veramente interessati, si persiste.
     
    Quello sguardo puro è tutto nella mia vita. Non c’è niente altro. Il resto è una storia che ci si racconta, ma che non smette mai d’essere lo sguardo stesso. La comunicazione diventa veramente possibile nel momento in cui mi rendo conto di non comunicare veramente, di essere in rapporto con le mie immagini degli altri e non con gli altri.
     
    Dico “gli altri”; è già un sapere chiamarli gli altri. Gli altri è un’immagine.
     
    Finchè non c’è una pulizia dello sguardo, non c’è comunicazione possibile. Sarà una lotta d’immagini. Ci sono immagini che mi piacciono, e altre no. Quelle che mi piacciono sono quelle che rassicurano l’io fabbricato, quelle che contribuiscono a farmi dormire di più. Le altre, quelle che potrebbero risvegliarmi, non voglio vederle. Si tenta sempre di riaggiustare  il proprio piccolo mondo perché sia confortevole e l’ego stia bene. E’ come un gatto che si accomoda su un divano, che ci gira attorno un po’, poi ci fa una nicchia ben assestata. Si fa questo tutto il giorno. Nel momento in cui accade una perturbazione, e qualcuno entra nella stanza o dice qualcosa, bisogna subito riassestarsi nella posizione precedente a quella intrusione. E questo incalza! Si fa appello alla memoria per sapere come reagire. Tutto ciò che penso, che dico, che faccio è per ritornare comodo continuando a identificarmi all’immagine di me stesso. Questa immagine deve sentirsi a suo agio ed è questo che guida le mie interazioni.
     
    3m.   Ma perché si ha sempre una impressione di disagio che ci segue?
    G. B.   Perché ci si prende per qualcuno! La vita non è che cambiamento, è puro dinamismo, è come una vibrazione. Non c’è niente di statico nell’universo.
    Sono le nostre immagini che sono statiche.
    E’ a quello con cui mi identifico che è un’immagine statica in una vita che è solo cambiamento. Immaginate il disagio! Si vorrebbe di continuo riaggiustare il mondo intero per essere comodi. E’ inutile e molto faticoso.
    Importa poco come siete arrivati a oggi, domani è completamente da rifare! L’istante dopo,  la situazione comincia già a degradarsi e degenera sempre più  in fretta. Certo, il degenerarsi della situazione è già lì fin dall’inizio.
     
    3m.   Si tratterebbe dunque di  riaggiustarsi istante per istante?
    G.B.   Se c’è aggiustamento, non c’è nessuno per aggiustarsi. Vedere che non c’è una persona che deve aggiustarsi. Non c’è da reagire. Le diverse situazioni della vita  non sono problemi da risolvere! Riposo! Voi non ci siete: quello che chiamate voi è un’immagine. In realtà voi assistete a quella che chiamate la vostra vita. Ma non come un testimone passivo, siete invece uno sguardo che agisce, come il sognatore. Questo testimonia quello che capita, ma non è separato da ciò che avviene ed è lì tutta la differenza. Le nostre abituali immagini di testimoni sono da rivedere.
     
    3m.   Prendersi per qualcuno è scomodo, e vedere scorrere la vita anche è sgradevole.
    Non è la vita che è sgradevole, ma il me fabbricato nella vita. 
    Finchè ci sono immagini e ci si prende per immagini è sgradevole.
    Ma come fate a dire che è sgradevole? Allora sapete già cos’è la gioia… E da dove vi viene?
    Vi hanno insegnato cos’è la gioia, la tranquillità? Non ve l’hanno mai insegnato, lo sapete già. Perché? Perché siete quello. Molto semplicemente. La sofferenza è la prova della gioia. Più soffrite, più la prova è decisiva! Gioitene!
    Ogni sofferenza si riferisce alla gioia, ogni desiderio, ogni piacere. La paura della morte si riferisce all’immortalità. Come fareste ad aver paura della morte se non foste atemporali. Si sa in qualche parte che non è possibile, perchè siamo la Vita, e la Vita non può essere la morte. Mentre sappiamo questo profondamente, siamo convinti  di essere qualcosa che molto evidentemente va scomparendo. L’incontro delle due cose nel cervello produce l’intollerabile: morire? Non è possibile! La paura di morire è un rifiuto dell’impossibile. Ma finchè ci prendiamo per quella cosa che con evidenza va scomparendo, continua l’ansia.
     
    3m.   Quando parlate di essere nel tra- due, è uno scopo.
    G.B.   No. Quando dite questo  pensate al Tra- due, ve ne fate un’immagine e ridiventate qualcuno; allora non potete avere scopo, non fosse che per liberarvi da tutto questo. Ma se non mettete l’accento sul vostro scopo, vedrete molto rapidamente che siete preso da ciò che è lì, la realtà. Finchè mi prendo per un personaggio non posso far finta di non avere direzioni: non sarei onesto con me stesso. Ma a un certo momento la direzione se ne va. Non posso forzarlo, è come un momento di stupore. Per esempio, andate al museo. Avete uno scopo. Ad un tratto siete preso. Non da un quadro; vedete vostra moglie sottobraccio ad un uomo! Nello stesso istante della percezione, non siete qualcuno. Avevate uno scopo e improvvisamente avete dimenticato il vostro scopo. C’è apertura e ed è senza scopo. E l’istante dopo, siete di nuovo localizzato, secondo l’immagine che avete di quell’uomo e di quella donna che chiamate vostra moglie. Avete di nuovo uno scopo. Finchè passo il tempo a localizzarmi così, a mettermi in situazione in rapporto a ciò che è percepito, finchè tengo alla mia immagine individuale, ci sarà una direzione alla mia azione; la mia vita sarà fatta di calcoli e lamenti.
     
    3m.   Voi siete allora attore di qualcosa.
    G.B.   Non ne abbiamo la scelta. Finchè esiste il corpo, c’è un attore. La maggior parte del tempo mi prendo per il mio ruolo; è così che la maggioranza delle persone passa la vita. Ma non è un obbligo.  A un certo momento si può avere una presa d coscienza e nell’istante si è senza scopo. Questo non impedisce che l’istante dopo gli scopi riappaiano, perché portiamo dei nodi che si sono solidificati da tempo e non si sciolgono istantaneamente. Ma una volta che si è presi, non si dimentica più. Sono stato toccato da qualcosa e ne conserverò la nostalgia. Questo sarà il mio nuovo scopo nella vita. Certo, è ancora uno scopo, ma cancella tutti gli altri. Poi si cancellerà anche lui. E’ la grazia che lo fa, non la cosiddetta volontà.
     
    3m.   Anche le memorie si cancellano?
    G.B.   Sono le identificazioni alle memorie che si cancellano. C’è una notevole differenza tra la pulizia spirituale e la malattia di Alzhaimer. Ma la cosa più difficile alla fine, quando la gomma ha cancellato tutto, è che resta la gomma da cancellare. Essere un risvegliato, è sempre essere qualcuno. Quando lavate la biancheria, mettete del sapone e alla fine risciacquate tutto e tutto se ne va, il sapone e lo sporco. E’ la biancheria pulita che ci interessa, non il sapone.
    Quando si è presi dal silenzio, si è totalmente scossi. Tutti gli scopi nella vita sembrano insignificanti di fronte a quel superscopo che è vivere quello ogni giorno. E’ ancora uno scopo, ma, se non s’insiste troppo sul cammino da fare, si cancella. Se no, si conserva un mostruoso ego spirituale. Ma non è evidente vedere che si è ancora in uno scopo.
     
    3m.   Se vi preoccupate tanto di parlarci di quest’idea di risveglio, questo diventa uno scopo per me. Ho perciò un’intenzione, quella di risvegliarmi ed è per questo che sono lì. E nello stesso tempo dite che non c’è niente cui tendere, che non bisogna avere intenzioni.
    G.B.  Non voglio risvegliarvi, e non dico nemmeno che non ci vuole intenzione. Non ci sono “si deve”.
     
    La Realtà non parla all’imperativo, ma all’indicativo presente…o all’infinito.
     
    Constato che la mia vita  non è fatta che di intenzioni, di reazioni. Lo constato. Non ho nemmeno voglia di togliere questo e mettere altro al suo posto, che verrebbe dalla mia memoria. Che sarebbe una nuova intenzione. No. Io constato. E’ come se improvvisamente realizzassi che il mio pugno è chiuso da tre ore. Non ho più bisogno di volerlo rilassare, si rilassa da solo. Non c’e bisogno di creare lo scopo di rilassarsi…
     
    3m.   Ma anche constatare è uno scopo.
    G.B.   No! Constatare è lo sguardo. Non c’è intenzione nel guardare. Nessuna intenzione per essere. Voi non siete che sguardo. Che scopo c’è lì dentro? Quando vi si schiaffeggia, la guancia si arrossa. Non c’è bisogno dell’intenzione perché si arrossi. Non c’è niente d’intenzionale nella vita. Perché? Perché non c’è nessuno per volerlo. E’ un guaio che ci sia qualcuno nella mia vita che vuole qualcosa. Una completa sciagura. Non ho da disfarmi di quella persona artificiale. Essa è artificiale! Non c’è che constatarlo. Siamo nella vita per constatare, non per abolire qualcosa che non esiste. E’ faticoso passare la vita a tentare di risolvere un problema che non esiste.
     
    3m.   C’è però un momento in cui si decide?
    G.B.   Ci sono direzioni da prendere nella vita, sicuramente. State uscendo da quella porta. Ma, se poteste veramente vedere tutto ciò che avete fatto nella vita fino ad ora, ciò che avete letto, mangiato, ciò che i genitori e gli insegnanti vi hanno detto e che avete creduto, se si potesse vedere tutto questo, si saprebbe subito per quale porta uscire e in quale stato. Nessuno l’ha deciso. Se si potesse seguire l’influsso nervoso nel cervello, lungo le braccia e le gambe, non si potrebbe trovare nessuno che ha deciso. E’ un movimento. Ed è quel movimento che dice: sono io. Non c’è nessuno a decidere.  A un dato momento,  io credo di essere quello: sono io. E a un altro momento non ci credo più.  E cosa resta? Ciò che sono, che è lì, atemporale, che è la luce del Cuore. Si può dire che solo la luce del Cuore esiste. Si può vederlo. Si può viverlo, celebrarlo, condividerlo, per la gioia.

  • Essere scelto

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    3ème Millénaire n. 93 – Traduzione della dr.ssa Luciana Scalabrini

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    3m.   Cos’è la meditazione? Che senso ha fare meditazione?
     
    J.B.   Meditare, è mettere un termine a tutto ciò che si è fatto nella vita e fare qualche altra cosa? No, è continuare nella direzione che seguiamo, ma andare fino in fondo.
    Smettere di accontentarsi di uno sterile compromesso. Andare fino in fondo. Quando eravamo molto giovani, bambini, gioivamo tutti, totalmente, pienamente. Andavamo fino in fondo, scelti dal gioco. Eravamo nella gioia, nella meraviglia. Ciò che facevamo, era con amore, attraverso il gioco. Nessuna meditazione, nessun bisogno di concentrazione.
    E’ stato dopo che la memoria si è riempita. C’è stata accumulazione e alla fine agitazione. Ora, la meditazione è la vera natura dell’esistenza, che è pura tranquillità e pura gioia.
    Questo stato è stato senza dubbio guastato dall’agitazione, dai desideri, dalle paure, da tutto quello che si è cristallizzato attorno alla cosiddetta personalità. Ma questo non è andato perduto.
    Per gli esseri umani che, in un momento di grazia, d’apertura, ritrovano quello stato, diremo che sono in contemplazione o in meditazione.
    Il concetto di meditazione è venuto a persone che sono state scelte dalla bellezza della vita, dalla meraviglia davanti all’esistenza, come i bambini. Loro hanno visto che la loro mente li rendeva agitati, e si sono detti che c’era uno stato in cui si può stare più tranquilli, più all’ascolto. L’hanno chiamato meditazione. Perché la meditazione è la sola cosa che non si può “fare”,cioè si fa attraverso l’ amore, l’entusiasmo. La realtà è che è il solo momento in cui non facciamo niente. Non c’è nessuna direzione deliberata, volontaria.
    Cosa posso volere  se non è già  nella mia memoria? Volere, è voler rifare il conosciuto. Il genere di vita in cui viviamo e in cui ci siamo lasciati radicare, è volontarista, che si concentra su tutto il sedicente individuo che fa e raccoglie il frutto dopo l’azione. La paura è voler rifare ciò che si conosce. La meditazione non ha niente a che fare con questo. E’ una scelta.  Forse è il solo momento della giornata dove il meccanismo del volere acchiappare, prendere e comprendere è a riposo. Perché il meccanismo di presa e la comprensione partecipano allo stesso movimento, che concerne l’io fabbricato. In India si chiama
    ahamkaraAham è l’io universale, l’esistenza stessa; ahamkara è l’io artificiale che si è costruito nello spazio e nel tempo, quello che è attratto da tutti i desideri, dalle paure, dai rimpianti.
     
    3m.   Al tempo stesso, è questo io fabbricato che ci porta alla meditazione.
     
    J.B.   l’Io fabbricato non esiste nella vita. E’ questa qui, la vita, il motore che ci porta alla meditazione. L’ego non esiste, è un’illusione. Non un solo ego è capace di alzare una tazza di tè, è la vita che lo fa. L’ego è una finzione, un concetto molto pratico per le mondanità. Ma nella vita non c’è che la vita. Certo, la meditazione sembra venire da una decisione.
    Ci si dice: “Vado a fare meditazione”, ma in realtà in quel momento non se ne ha la scelta. Si è presi.
    Così come prima, non ne avevamo la scelta di non farla!
    La vera meditazione è realizzare che non abbiamo mai avuto la scelta…e alla fin realizzare che non abbiamo da meditare. Quando realizziamo questo, prendiamo immediatamente coscienza di non fare nulla.
     
    3m.   Quando mi dico che vado a fare meditazione, cerco di ritrovare qualcosa uno stato conosciuto nel passato, spesso assieme ad una postura. C’è una messa in scena. Cosa succede esattamente in quel momento? Quale processo mi conduce verso la vera meditazione?
     
    J.B.   Profondamente non c’è un processo, non un cammino, niente da raggiungere e nessuno che raggiunge nulla. Ecco la pura verità senza compromessi. Descriviamo dunque qui cosa succede nella testa di qualcuno che si crede ancora qualcuno.
    La prima cosa che succede è che le molteplici direzioni della vita si riducono a una sola. Non saltiamo più da un oggetto ad un altro. Quando mi ritorna la nostalgia della tranquillità, ascolto, guardo. La tranquillità che viene è naturale. Evidentemente, in quel momento, ho ancora l’immagine d’avere una direzione.
    Perché finchè mi prendo per qualcuno, non posso far finta di non avere una direzione mentre ne ho una.
    Anche se lo vediamo normalmente, per esempio quando si pretende di non avere uno scopo, quando si pretende di lasciar fare, mentre si ha un fine, quello di non avere scopo! Un occhio non può guardare se stesso.
     
    Non siamo altro che puro sguardo, pura attenzione.
     
    Questo è di una semplicità totale, però è difficile da comprendere. Non è della serie razionale.
    Finché cerco di guardare, finchè c’è in me qualcuno che cerca di guardare sono a fianco della meditazione. C’è sempre un soggetto che guarda un oggetto, con uno sguardo fra i due per fare il legame. Cosa resta? Lo Sguardo vero, l’Io, in cui sorgono il soggetto, l’oggetto e la percezione che li legano. Certo, quello Sguardo non è oggettivabile. Se si cerca di descriverlo, lo siriduce di nuovo a un oggetto e si scende di nuovo nella mondanità.
     
    3m.   Quando c’è nostalgia, sembra necessario essere attenti a quella nostalgia. Perché se non sono attento a quello, se non riconosco il valore di quella nostalgia, il mentale cerca di riempire la mancanza nel modo solito, per esempio aprendo il frigo, accendendo la televisone, ecc. Cerca di riempire il vuoto con ciò che conosce.
     
    J B.   C’è un lavoro che si fa sull’idea che io sono qualcuno separato. Quella separazione a cui sono abituato mi provoca riconoscenza nel momento in cui sono cercato. Si basa su nodi che si sono formati in me. Ma i nodi si possono mettere a nudo, se rimangono lì dove si è. Quando lo sguardo si posa, il soggetto e l’oggetto si cancellano molto in fretta. E’ un semplice fenomeno dell’attenzione. Ho fatto un test di campo visivo, dove vi si chiede di fissare un punto giallo mentre vi si mandano dei flashs luminosi. Ad ogni flash bisogna premere un bottone. Dopo qualche minuto non si vede più il punto giallo; questo non è dovuto a un problema di visione, ma al funzionamento dell’attenzione. E’ la stessa cosa quando lo sguardo si posa. Se la mia attenzione si porta in modo prolungato sul minimo fenomeno, questo perde la sua apparenza, come se lo sguardo passasse attraverso il velo dell’apparenza. Quando sono preso dalla nostalgia, dalla corrente della vita, quando lo sguardo si posa e spesso diverge andando a destra o a sinistra, e non rientro in quella follia di voler governare l’attenzione o eliminare i pensieri, ci sarà un rilassamento.
    La calma arriva quando tutto ciò che si presenta è l’oggetto della meditazione.
    Invece, se provo a rilassarmi col pensiero, cosa succede? Se sono in fondo a un lago e vedo sollevarsi della sabbia e provo a farla ricadere con le mani, non farò che sollevare più sabbia. Seresto fermo, e guardo, tutto si deposita al fondo. Comincerò a vedere più chiaro e preciso. Le cose si depositano. Anche se non arriva quel rilassamento, non sono niente di meno che Puro sguardo, allora finalmente non mi manca nulla.
    E’ perché non vedo questo che credo di dover meditare.
     
    3m.   Si osservano i pensieri che sorgono, ma è difficile restare passivi, essere soltanto sguardo. Il condizionamento ci spinge a fare qualcosa…
     
    J.B.   Si, la meditazione è tutto il contrario di un fare, ma sembra esserci alternanza tra uno stato apparentemente concentrato e un altro di sedicenti pensieri che vengono a distrarci. Sono state messe a punto delle tecniche per arrivare a concentrarsi su un solo suono, un solo pensiero; questo può servire fino ad un certo punto, ma non va mai molto lontano e il rischio è di perdersi nella tecnica, dimenticando che anche la tecnica deve sparire.
    Meditare non è applicare una tecnica!
    Quando viene un pensiero, sono lì. Se non fossi lì, non ci sarebbe pensiero. Ogni pensiero dunque è in sé il modo di ricondurmi a me stesso. Se comprendo questo, smetto di separarmi dai miei pensieri. La separazione dai pensieri è un ostacolo per molti: dicono che dovrebbero fare meditazione per eliminare i pensieri. Ma così facendo si separano dai pensieri …e dalla meditazione. C’è di nuovo uno scopo da raggiungere.
     
    3m.   E’ la patologia di dirsi che il pensiero è il nemico?
     
    J.B.   La base della patologia è di prendersi per qualcuno separato dal resto dell’universo.
    A partire da lì tutte le patologie evolvono. Quel modo mondano di vivere fa sì che vogliamo sempre qualcosa d’altro da quello che c’è. La meditazione è la cessazione  di quel meccanismo. Non ci sono nemici e con questo riconoscimento viene l’umiltà. Non c’è niente altro nella vita  che la vita. Anche il pensiero è la vita. In quello che è insegnato sulla meditazione spesso deriva una grande mancanza di umiltà.
    Meditare è essere umili. Ma essere umili non vuol dire essere piccoli, ma il contrario. Si diventa così umili che non si ha più l’impressione di dover fare qualcosa… come decidere che tutte le mattine tra le cinque e le sei bisogna essere umili. C’è una installazione. Un riposo.
     
    3m.   Ciò non vuol dire che tra le cinque e le sei non stai meditando, ma che lo stato mentale è cambiato. Rispondiamo all’appello senza farne una storia, un dovere da compiere.
     
    J.B.   E sempre più lo stato meditativo ci coglie durante la giornata. Si può stare danzando, saltando in aria, o essendo completamente tranquilli. La meditazione è lasciare la vita esserecome è attraverso il corpo e la psiche.
     
    3m.   La dimensione corporea è importante, apre la porta ad un sentire del corpo non abituale. Quando constato la mia agitazione, tornare alla dimensione corporea.  Quando si ha l’impressione di sbagliare, si ritorna a ciò che è di base. Per noi è il corpo. Tutti ne abbiamo uno! Può perciò essere un punto di ancoraggio. All’inizio, si può invitare a sentire il corpo; ma molto rapidamente, il corpo non sarà più il corpo. Sarà sentire e basta. Se si sente il corpo, prima o poi si sente una gioia, perché la vera natura del corpo è di essere vuoto, profondamente gioioso.
    All’inizio del ritorno alla sensazione, c’è un osservatore: osserva le sensazioni, i fenomeni nel corpo, eventualmente ciò che non va (e si inquieta!). Cosa diventa nella meditazione?
     
    J.B.   Il solo Osservatore che esiste include i mezzi d’osservazione, l’osservatore di cui parlate e il sedicente oggetto osservato. Tutto è dentro. E’ come il sognatore. Nel sogno, tutti gli oggetti, i personaggi e i mezzi di conoscenza sono nel sognatore. Nel sogno non c’è che il sognatore. La meditazione è risvegliarsi. Smettere di dormire. Vedere che nella vita non c’è che lavita. A un certo momento, resterà una chiarezza. Nella stessa scelta c’è solo la Luce cosciente. Cosa sono in quel momento?
    Sono Quello.  

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